Dei vari scorci – non
troppissimi – che permettono di osservare il film vincitore della
Camera d’Or a Cannes 2009, ce n’è uno particolarmente
esplicativo; non va sottovalutato l’utilizzo che il regista Warwick
Thornton fa della musica, fin dalle prime battute essa diventa un
metodo di esposizione efficacemente descrittivo in una pellicola dove
il carico verbale è parecchio prosciugato, nemmeno
centociquanta linee di dialogo in tutto. La musica è un
accessorio efficace per far arrivare la routine del villaggio di
nativi australiani (la band fuori dalla veranda suona continuamente
la stessa melodia), ma lo è anche per tracciare le personalità
sia di Sansone che di Dalila: dove lui esprime il suo animo ribelle
appropriandosi con forza di una chitarra elettrica, mentre lei rivela
un lato romantico “regalandosi” ogni sera un momento di serenità
con una audiocassetta spagnola. Il quadro personale dei due ragazzi
risulta basico ma ispessito da un afflato utopico che si sfracella
con la dura realtà rappresentata, delineando un cinema
ficcante non tanto nelle cadute (ogni forma di dipendenza è
stata ormai ampiamente illustrata dalla settima arte), quanto
nell’ostilità ambientale, nel degrado civile e igienico che
si riflette in un paesaggio desertizzato dove per trovare dell’acqua
(fangosa) bisogna scavare a mani nude nella sabbia.
L’accelerazione
drammatica della seconda parte, non priva di qualche limitazione che
vedremo tra poco, inscena l’impossibilità della fuga con
un’escalation inumanizzante che non lascia apatici (probabilmente
il momento in cui anche Dalila inizia a sniffare benzina assume i
contorni del punto di non ritorno), ma tra le righe adopera sempre
coordinate musicali per definire stati emotivi nonché per
sciogliere nodi narrativi, e durante la deriva urbana Thornton non
può fare altro che deprezzare la loro spinta vitale riducendo
la musica a sgangherate cantilene proferite da un barbone.
Esulando da questo
discorso comunque validante che riguarda il sonoro (tra l’altro
oggetto di manipolazioni tecniche, vedasi Sansone che si tappa le
orecchie o la scena del ballo notturno), il film ha almeno un’altra
freccia al suo arco, ovvero la costruzione di un rapporto
(...sentimentale) che prescinde dalla parola e si costruisce nel
singolo gesto (la mano che scansa la bottiglia per incontrare l’altra
mano), ma, nell’insistere sulla tragedia nel contesto urbano pecca
un minimo col voler ribadire tale dimensione proponendo per due volte
consecutive un medesimo scenario che se da una parte tende a sottolineare l’alienazione di Sansone, riuscendoci, per carità!,
dall’altra si ripete e forse esagera un poco accanendosi sulla
povera Dalila (passi il repentino incidente, ma l’altrettanto
rapido adescamento non ha motivazioni se non quelle di imbrunire la
sceneggiatura).
Ad ogni modo si tratta
dell’unico appunto che il sottoscritto si sente di segnare sul
taccuino, Samson & Delilah (2009) è cinema il cui nucleo
pur essendo già stato raccontato in passato, e in egual modo
verrà raccontato anche in futuro, possiede quel briciolo di dignità
per appartenere alla categoria.
non riesci neanche ad immaginare il piacere che ho provato nel leggere queste tue righe dopo tanto tempo. Spero che il periodo brutto sia passato e che ricominci a essere più presente....un saluto
RispondiEliminasì sì, come no! Adesso scrivo canzoni, ho scritto questa per autoconvincermi.
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