lunedì 7 settembre 2015

Samson & Delilah

Dei vari scorci – non troppissimi – che permettono di osservare il film vincitore della Camera d’Or a Cannes 2009, ce n’è uno particolarmente esplicativo; non va sottovalutato l’utilizzo che il regista Warwick Thornton fa della musica, fin dalle prime battute essa diventa un metodo di esposizione efficacemente descrittivo in una pellicola dove il carico verbale è parecchio prosciugato, nemmeno centociquanta linee di dialogo in tutto. La musica è un accessorio efficace per far arrivare la routine del villaggio di nativi australiani (la band fuori dalla veranda suona continuamente la stessa melodia), ma lo è anche per tracciare le personalità sia di Sansone che di Dalila: dove lui esprime il suo animo ribelle appropriandosi con forza di una chitarra elettrica, mentre lei rivela un lato romantico “regalandosi” ogni sera un momento di serenità con una audiocassetta spagnola. Il quadro personale dei due ragazzi risulta basico ma ispessito da un afflato utopico che si sfracella con la dura realtà rappresentata, delineando un cinema ficcante non tanto nelle cadute (ogni forma di dipendenza è stata ormai ampiamente illustrata dalla settima arte), quanto nell’ostilità ambientale, nel degrado civile e igienico che si riflette in un paesaggio desertizzato dove per trovare dell’acqua (fangosa) bisogna scavare a mani nude nella sabbia.

L’accelerazione drammatica della seconda parte, non priva di qualche limitazione che vedremo tra poco, inscena l’impossibilità della fuga con un’escalation inumanizzante che non lascia apatici (probabilmente il momento in cui anche Dalila inizia a sniffare benzina assume i contorni del punto di non ritorno), ma tra le righe adopera sempre coordinate musicali per definire stati emotivi nonché per sciogliere nodi narrativi, e durante la deriva urbana Thornton non può fare altro che deprezzare la loro spinta vitale riducendo la musica a sgangherate cantilene proferite da un barbone.
Esulando da questo discorso comunque validante che riguarda il sonoro (tra l’altro oggetto di manipolazioni tecniche, vedasi Sansone che si tappa le orecchie o la scena del ballo notturno), il film ha almeno un’altra freccia al suo arco, ovvero la costruzione di un rapporto (...sentimentale) che prescinde dalla parola e si costruisce nel singolo gesto (la mano che scansa la bottiglia per incontrare l’altra mano), ma, nell’insistere sulla tragedia nel contesto urbano pecca un minimo col voler ribadire tale dimensione proponendo per due volte consecutive un medesimo scenario che se da una parte tende a sottolineare l’alienazione di Sansone, riuscendoci, per carità!, dall’altra si ripete e forse esagera un poco accanendosi sulla povera Dalila (passi il repentino incidente, ma l’altrettanto rapido adescamento non ha motivazioni se non quelle di imbrunire la sceneggiatura).

Ad ogni modo si tratta dell’unico appunto che il sottoscritto si sente di segnare sul taccuino, Samson & Delilah (2009) è cinema il cui nucleo pur essendo già stato raccontato in passato, e in egual modo verrà raccontato anche in futuro, possiede quel briciolo di dignità per appartenere alla categoria.

2 commenti:

  1. non riesci neanche ad immaginare il piacere che ho provato nel leggere queste tue righe dopo tanto tempo. Spero che il periodo brutto sia passato e che ricominci a essere più presente....un saluto

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  2. sì sì, come no! Adesso scrivo canzoni, ho scritto questa per autoconvincermi.

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