C’è una
scrittura forte dietro a Weekend (2011), prodotto semplice (ma anche
raffinato) il cui movimento è trasportato nel continuo
confronto fra due uomini, ovviamente diversi, che incontrandosi in un
lembo temporale brevissimo partoriscono l’albeggiare una relazione fatta di titubanze e indecisioni ma inverata da una partenza
imminente che dilata il tempo e accelera i sentimenti: due giorni
come due anni o due secoli, Glen e Russell sulla soglia del turbine,
vederli lì – davvero – venirsi incontro, incastrare i
caratteri, provare a smussare gli spigoli. E poi, appunto, la
scrittura. Perché ammettiamolo, il film di Andrew Haigh,
emergente regista britannico che vanta collaborazioni prestigiose in
passato (Ridley Scott!), ha uno scheletro omologo al 90% delle
pellicole sentimentali; la conoscenza, prima fisica e poi intima,
l’innamoramento e la conseguente nonché inevitabile rottura
sono i capisaldi del genere e Haigh non si preoccupa di apportare
alcuna modifica alla struttura, ciò che invece appare
chiaramente come il suo obiettivo da raggiungere (che, per chi
scrive, viene raggiunto) è il pronunciarsi sull’omosessualità
da dentro l’omosessualità senza far uso di cliché
stantii e senza naufragare in una apologia magniloquente del tema, bensì
ancorandosi alla vita che nasce di una coppia gay, raccontandoli,
l’uno e l’altro, così come sono in maniera accattivante,
con anche (evviva) un po’ di autoironia e di ironia tout court che
di certo non guastano, infiltrandosi nei loro passati e nei loro
presenti, un po’ nostalgici per entrambi con il tic che li accomuna
di annotare le avventure amorose vissute e poi, inevitabilmente,
svanite.
C’è la
parola come assunto in Weekend. Ci sono parole, tante, che modellano
due sfere concentriche come l’amore omosessuale in privato e il
suddetto calato nella realtà sociale. Ci sono, è il
caso di dirlo, due interpreti eccellenti (Tom Cullen e Chris New) che
incarnano due modi di vivere il proprio orientamento sessuale in
maniera inversa, e dalle frequenti conversazioni fra Russell e Glen
emergono punti di vista che creano un dialogo capace di superare il
mondo-intimità appena generato, gli alterchi, le carezze, le
diatribe, le tenerezze, per giungere ad una interrogazione leale
sull’identità omo nella contemporaneità; tale ricerca
nel suo svolgersi assume connotati divergenti come lo sono le
personalità dei protagonisti (uno pacato, l’altro risoluto,
uno mimetizzato, l’altro scoperto, uno è conforme l’altro
è rivoluzione) la cui fusione di appena quarantotto ore
secerne una chiosa che ha nell’uguaglianza il suo contenuto, perché
il tramonto su una città, le luci spente di un palazzo, e un
bacio tra due persone vicino alla finestra non cambiano: non esistono
crepuscoli etero e crepuscoli gay, le differenze stanno nella cultura
e non nella natura.
L'hai descritto come ben merita. È davvero un gran film, che si distingue meravigliosamente dai film sentimentali sul tema. Il pianosequenza finale della stazione rompe qualcosa dentro.
RispondiEliminaLa regia di Haigh mi ha colpito molto, infatti ho visto la serie Looking: a parte qualche episodio che ricorda stilisticamente questo film, non l'ho trovata molto esaltante.
Preferirei invece recuperare l'opera prima "Greek Pete", che tratta il tema della prostituzione maschile. Anche se paradossalmente, recentemente mi sono imbatutto sulla trilogia della prostituzione maschile di Wiktor Grodecki, una roba così potente e suprema (che ti straconsiglio prima di morire) che vedere altri film sul tema lo ritengo alquanto inutile.
che bello sentire voci che parlano di cose sconosciute, di far parte - ancora - di questo incessante flusso culturale. Mai sentito questo Grodecki, ed è perfetto così, lo guarderò sì, chissà quando. Ah di Weekend non mi ricordo quasi nulla, l'avrò visto tre anni fa! I pochi residui mi cantano lontani di un film accettabile con qualche interessante accento. Mi rimetto alle tue parole.
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