Forse il cinema di Tsukamoto è sempre stato così e di conseguenza si entrerebbe in quel loop per cui alla fine chi è cambiato davvero sei tu spettatore, il tuo sentire, i tuoi bisogni, e non il regista di turno? Non saprei, di anni ne sono passati parecchi e il ricordo è oltremodo stinto, tuttavia se si ritorna a Tetsuo (1989) e alla carica sovversiva che lo permeava nonostante ogni cosa fosse sbattuta in faccia a noi, quella pellicola è, ad oggi, uno degli esemplari più travolgenti che la settima arte annoveri, ecco, scadere nel paragone (con una vetta inarrivabile poi!) è il modo più facile, nonché il meno deontologicamente corretto, per rifugiarsi – e autoconvincersi – in – e di – un giudizio, quanto voglio sostenere, al di là degli accostamenti infruttuosi, è che in Nobi si verifica il Danno per eccellenza: perché si mostra, si esibisce, si fa uno show dell’atrocità, si mette in vetrina la brutalità che appanna la logica: la fame, il sangue, il fango, i deliri, i vermi, i cadaveri, i sogni, non manca niente nel bouquet che Tsukamoto ci obbliga ad afferrare. Così, quell’assenza di sviluppo tramico per nulla da disdegnare che conferisce una dimensione astratta alla storia, rimane più che altro un accessorio che si aggancia alla carrellata di barbarie, le quali ad essere onesti possiedono anche lampi di fascino, in particolare con l’annerirsi della vicenda non è affatto male l’inserimento dei militari moribondi tra le frasche della foresta che riportano, immediatamente, alle orde zombesche degli horror occidentali. Probabilmente Tsukamoto è stato un bravo cineasta e magari lo è ancora, d’altronde alcuni lampi che riprendono il furore giovanile suggestionano, di sicuro non posso dirlo io perché una noia atavica mi invade e perché, in fin dei conti, Fires on the Plain mi è parso un prodotto figlio di un’idea superata, al limite faccio a Shinya i complimenti per la performance attoriale, cosa che già si sapeva, Tokyo Fist (1995) insegna.
giovedì 30 luglio 2020
Fires on the Plain
martedì 28 luglio 2020
Nimic
Sugli eventuali significati del corto non ho granché voglia di ragionarci sopra, sono pigro, stanco e soprattutto senza chiavi di lettura chiarificanti, prendo giusto coscienza del fatto che in un contenitore dalle dimensioni ristrette il paradigma lanthimosiano, presente, assente, divergente o meno che sia, non si accusa per nulla perché passa e va senza colpo ferire. Lascio a voi ritenere se ciò sia un aspetto negativo o positivo (ah sì, sono anche un po’ vile) e chiudo facendo un collegamento ardito, dubito fortemente che Lanthimos e Filippou abbiano mai letto Dylan Dog, ma se fosse consiglierei loro di dare un’occhiata al Maxi Dylan Dog numero 3 uscito nel giugno del 2000 che contiene La vita rubata, testi di Fabrizio Accatino e disegni dello storico duo Montanari & Grassani, una storia che ha più di un qualcosa a che fare con Nimic.
domenica 26 luglio 2020
Dov'è il mio corpo?
In merito al comparto narrativo assistiamo ad uno spaccato formativo che usa degli ingredienti classici: passato complicato, presente non da meno e impepata sentimentale a ravvivare un’esistenza pericolosamente anonima. Clapin tiene il tutto sotto controllo (e per questo mi sarebbe piaciuto qualche graffio inatteso), dosa i flashback che piacciono perché provenienti dall’arto mutilato, come se possedesse una sua memoria, un suo trascorso, e struttura l’infatuamento di Naoufel con quel garbo e quella delicatezza ascrivibili alle opere animate. Non voglio affermare che ci sia il pilota automatico però la progressione della vicenda è priva di particolari sussulti, una legge non scritta vuole che un rapporto, effettivo o in procinto di essere tale, subisca un’interruzione ed è ciò che accade, solo che il diniego di Gabrielle arriva forzato e fin troppo brusco, quasi fosse una svolta obbligata per legittimare l’evento-madre, ovvero l’infortunio con la sega che trancerà la mano di Naoufel. E a proposito di quest’ultima, serbo un pizzico di perplessità sul ricongiungimento con il resto del corpo, poteva esserci maggior poesia, maggior urto emotivo al posto di una riunificazione un po’ in sordina visto che il finale se lo prende Gabrielle. Il procedimento che ne consegue dove veniamo edotti del superamento di Naoufel, letteralmente: di un salto, verso un nuovo futuro non è malaccio perché gioca con la registrazione audio ascoltata dalla ragazza e i fatti come sono davvero avvenuti. È sufficiente questo “diploma di vita” che si certifica nella conclusione a soddisfare lo spettatore? Nì. Di cose dentro a Dov’è il mio corpo? ce ne sono, il mood-looser adolescenziale, la perdita, il ricordo, la voglia di sentirsi accettati, il desiderio, il sogno di un altrove e di una condivisione in questo altrove, ma sono tutte cose che nell’area animata risultano pressoché all’ordine del giorno, perciò oltre a dire che si tratta di un film carino non dico.
venerdì 24 luglio 2020
DAU. New Man
Tra il 2009 (ma alcuni siti riportano il 2008) ed il 2011 allestisce in Ucraina, presso la città di Charkiv, una gigantesca struttura che ricrea in maniera certosina un fantomatico Istituto sovietico (è la riproduzione di un centro di ricerca segreto ubicato a Mosca che fu attivo dal 1938 al 1968), in un’area di riprese da oltre dodicimila metri quadrati che pare si sia guadagnata la nomea di set più grande d’Europa (e si presume anche del mondo) dove, attraverso un poderoso sforzo produttivo tra Europa e Russia, ha costruito una specie di realtà parallela perfettamente abitabile, vivibile, si dice infatti che centinaia e centinaia di “attori”, divenuti tali poiché parte concreta del progetto ma entrati dentro ad esso come tecnici, scienziati, filosofi e via dicendo, abbiano vissuto per davvero all’interno di questa ciclopica Synecdoche, New York in salsa stalinista (e quindi abbiano indossato gli abiti d’epoca e mangiato e bevuto cibi di quel periodo) facendo sì che la distanza tra ciò che erano ed il ruolo che interpretavano si assottigliasse fino a svanire. Non è chiaro con quali modalità ma ci sono molti nomi di celebrità anche al di là dell’universo cinema che hanno fatto parte di DAU: Gerard Depardieu, Marina Abramović, Willem Dafoe, Charlotte Rampling, Brian Eno, perfino il nostro Carlo Rovelli che, insieme a Gianluigi Ricuperati (lo scrittore dall’esperienza ne ha tratto il romanzo Est edito da Tunué nel 2018), rappresenta la quota italica. Il titolo di questo esperimento cine-sociale prende il nome dal fisico Lev Davidovič Landau perché nell’idea iniziale Khrzhanovskiy voleva semplicemente (?) fare un biopic su di lui, ma il risultato che ne è conseguito parla di circa settecento ore complessive di girato tanto che sul sito ufficiale (link) si contano tredici film (ma sarà corretto definirli film?) che plausibilmente verranno pian piano resi disponibili. Facendo un passo indietro, il primo contatto tra DAU ed il resto del mondo avviene, dopo numerosi annunci e altrettante smentite, a Parigi il 24 gennaio 2019 con una mega video-installazione che coinvolge il Centro Pompidou insieme a due teatri parigini, qui Khrzhanovskiy proietta a ciclo continuo il suo ciclopico blob in un diorama sovietico che a sua volta rimanda a quello dell’Istituto, un articolo apparso sul Sole 24 ore ne parla come di un “flop colossale”. Un anno dopo le prime due parti di DAU vengono presentate a Berlino ’20. Qualunque cosa sia DAU, se un film, un’opera d’arte contemporanea o una mastodontica baggianata, sarà comunque una pietra angolare con cui si dovrà fare i conti, probabilmente la sfida cinefila più esaltante degli anni venti.
Del
materiale usato ci sono scene inedite, e plausibilmente sono anche in
maggioranza. Khrzhanovskiy si sofferma un pelo di più sulle pratiche
in laboratorio, sugli allenamenti dei quattro ceffi, su piccoli
episodi comunque ininfluenti (tipo l’affissione di uno striscione).
Ma soprattutto assegna un maggiore spazio alla relazione tra Maxim e
Vika, la responsabile della mensa, il che sancisce, ancora una
volta, di come dentro DAU
permanga uno sguardo “rosa” sui rapporti sentimentali che vengono
catturati senza filtri, anche nei momenti più intimi. Non sono
sicuro se il regista dando un tale peso alla liaison abbia voluto
sottolineare che anche un esaltato del genere può avere ancora un
cuore da qualche parte (salvo poi dimostrarsi uno spietato assassino
con la mattanza finale) o se oppure ha semplicemente immortalato gli
scampoli di un contatto fisico-emotivo avvenuto realmente dentro
l’Istituto, d’altronde il sale del progetto è proprio la
labilità del confine che separa l’impostazione dalla naturalezza,
ad ogni modo, sia la presenza di nuove sequenze che il focalizzarsi
sull’improbabile coppia, non mitiga minimamente il senso di
generale déjà
vu che si percepisce dal primo all’ultimo minuto. Sfortunatamente
con l’avvicinarsi del finale e con la sua concretizzazione, il film
diventa la copia esatta del predecessore, ad esclusione dello
sgozzamento suino, l’escalation di violenza, anticipata
dall’identica conversazione con Azhippo,
è la medesima di Degeneration,
un vero e proprio copia e incolla a dir poco evitabile. Khrzhanovskiy
ci vuol dire che con lo sterminato monte ore di girato a disposizione
non aveva altri elementi per costruire una linea narrativa originale?
Bah, New
Man
è nel puzzle-DAU
un pezzo davvero superfluo.
mercoledì 22 luglio 2020
Sin Dios ni Santa María
E dove va Sin Dios ni Santa María? Probabilmente, di nuovo, nell’area delle suggestioni, le nostre, che ricostruiscono questa storia di streghe in un’atmosfera di pura bruma. Delgado & Girón come Gürcan Keltek, come altri innumerevoli artisti che vanno e vengono attraverso la dogana del comprensibile, che costruiscono con delle macerie già crollate cento, duecento anni fa, praticamente domani, che manipolano il loro oggetto di studio in stanze oscure da moderni alchimisti dove basta avere un computer e qualche programma consono, due registi che chiedono fondamentalmente una sola cosa a chi guarda: di lasciarsi andare alla circolazione ematica che reticola questo strano corpo fatto di luce e di divenire, quindi, parte dell’emorragia che defluisce illuminando stanze mentali piene di tende e vecchi mobili impolverati. Sia manifesto: Sin Dios ni Santa María è al massimo un buon punto di partenza per – si spera – ulteriori sviluppi futuri, nel frattempo godiamocelo.
lunedì 20 luglio 2020
Trigonometry
Don’t give me room to breathe
Suffocate me, reinstate me in you
I am falling apart, I am falling apart tonight
So just imprison me and shower me with light
(Empathy Test – Incubation Song)
La storia è la più basica che si possa immaginare: lui, lei e l’altra. Stop. Ma la scrittura che sorregge il tutto è valida, se non, a tratti, brillante, al punto che in una narrazione sotto certi aspetti perfino prevedibile (è la solita legge non scritta: un rapporto sentimentale è sempre fatto di step codificati) sa rivelarsi vera, freschissima, come se assistessimo ad una vicenda che si sta verificando fuori dal nostro pianerottolo di casa. In un contesto dove è inevitabile che trionfi la finzione, dove ogni aspetto è ragionato e misurato al millimetro, è comunque piacevole riscontrare l’assenza di un’ingessatura tipica del settore, i meccanismi che costruiscono le varie situazioni sono oliati da uno spirito che si direbbe genuino, un mood cercato e trovato dal gruppo realizzativo. La spontaneità che ci viene restituita fa sì che il percorso di innamoramento del trio sia un apprezzabile andirivieni emotivo che sa rendersi credibile pur toccando il paradosso, ad esempio potrebbe sembrare assurdo che durante una luna di miele i due sposini pensino (entrambi!) ad un’altra persona, per di più la stessa, ma nell’ecosistema di Trigonometry questo è possibile grazie alla tessitura dei legami umani, alla moderata esibizione dei sentimenti condita da parentesi di acuta ilarità e da dettagli che dicono abbastanza senza esagerare (il passato dei tre è fatto di cicatrici che portano sulla pelle). L’impressione è che il casino interiore ubicato nei componenti di questo triangolo e la relativa, complicata, accettazione del loro status sia la parte maggiormente coinvolgente per chi guarda, dal quinto episodio in poi (ovvero dall’avvicendamento dietro la mdp) con l’approfondimento degli altri pianetini del sistema solare della serie si perde un po’ di quella presa fino ad allora piuttosto stretta, è come se l’accumulo passionale, che ha l’apice nella prima notte di nozze, si sgonfi un poco con gli eventi famigliari successivi. Non è una ferita immedicabile perché comunque, le cose, arrivano ad un finale significativo (c’è un bel testacoda morte/nascita) anche per mezzo di una regia coerente che traduce in un realismo urbano/interiore il dispiegarsi della trama. Siamo in un territorio di camera a mano, di stretti primi piani mirati a cogliere anche il più piccolo luccichio degli occhi e di trascinanti piani sequenza (il party post-matrimonio). C’è vita che pulsa in Trigonometry, almeno dalla prima alla quinta puntata, e non è affatto male sentire questo battito ricolmo di delusioni e speranze.
Rispolverate gli appunti del liceo: la trigonometria è una branca della matematica che ci permette di calcolare i valori dei lati e degli angoli di un triangolo. Qui viene da pensare che il vertice in alto è rappresentato da Ray (del resto il suo nome si sposa con la luminosità che riesce a diffondere) mentre i due angoli alla base sono Gemma e Kieran. Difficile affermare che tipo di amore sia il loro perché a tratti non sembrano esclusivamente tre amanti, gli autori sono stati in grado di creare un ambiente affettivo dove la dimensione erotica si fa da parte, a volte il triangolo si rovescia e pare quasi un amore genitoriale quello della coppia nei confronti della giovane ragazza francese, altre volte diventa equilatero a testimonianza di un equilibrio dove non c’è chi dà di più o chi dà di meno dentro al ménage, sopravvive in sostanza una trasmissione di bene che è un ricircolo perpetuo di aria ossigenante, nessuno può privarsene e ciò, in qualche modo, contribuisce ad una fidelizzazione verso il trio al punto che tale bene, se vi va, sa travalicare lo schermo trasformando il triangolo in un altro disegno geometrico dove il quarto lato siamo noi. Ad ogni modo, assodata la figura piana principale, vi sono altre connessioni che originano un poligono decisamente elaborato in cui si innestano altri sentimenti: è il caso di Moira, la migliore amica di Ray, divisa tra l’amicizia e la gelosia, o la presenza (oltre che l’assenza) di padri e madri che vorrebbero il meglio per i loro figli e che faticano a comprendere la fluidità dell’oggi. Il mix di nessi che stratifica il microcosmo di Trigonometry è un valore prezioso che offre l’opportunità di vedere meglio la superficie prismatica di una realtà contemporanea dove le maglie degli impostati vincoli relazionali possono allentarsi per rendersi inclusive, non senza problematiche, e non senza nuovi turbamenti e prospettive.
Non parlo mai di attorialità, di base perché non ne ho le competenze e secondariamente perché ritengo che il cinema non abbia bisogno di attori, però, visto che Trigonometry, al pari di tutte le altre serie, è più letteratura che cinema, è obbligatorio fare un plauso ai personaggi inventati da Macmillan-Woods e da chi li ha interpretati. Sopra ad ogni cosa si erge come una benedizione Ariane Labed, lei, che esordì nell’Attenberg (2010) della Tsangari per poi presenziare in altri film di Lanthimos (che ha sposato nella vita reale), è un essere di luce azzurra che plana dentro ad un disordinato appartamento britannico, è, di per sé, una portatrice di geometrie spezzate (il sogno da nuotatrice artistica interrotto da un infortunio), è una rivoluzione che la Labed fa sua in un modo fantastico dando a Ray una forza e una fragilità che legittimano l’innamoramento immediato degli altri due, è un ritratto muliebre di una delicatezza disarmante che entra sottopelle, che se si potesse la si vorrebbe abbracciare ogni due secondi. Un gradino sotto c’è la performance di Thalissa Teixeira che per la sua Gemma sfodera tutta la passione, la fisicità ed il calore latino che possiede, è una donna di carattere differente da Ray ma anche per lei, seppur in maniera diversa, non viene meno un’energia che edifica un feeling concreto con chi guarda. Chiude il trio Gary Carr, indubbiamente bravo a destreggiarsi in un ruolo maschile a sua volta punteggiato da delle debolezze ma vicino a due stelle così brillanti non poteva che uscirne onorevolmente sconfitto.
Se è vero, ed è vero, che Netflix ha il monopolio globale delle serie tv e che le altre piattaforme in competizione tentano di proporre a raffica prodotti sempre nuovi e appetibili per il grande pubblico, sappiate che ce n’è uno di questi prodotti dal budget limitato e dalla trama “normale” (perlomeno più normale rispetto alle stancanti e inutili contorsioni di certi esemplari del recinto seriale, eh sì Dark, sto parlando di te) che senza strombazzamenti sa suscitare ciò che in fondo si chiede ad un oggetto che si appropria del nostro prezioso tempo: un trasporto (la voglia di vivere, di provare, di essere travolti, di sbagliare), uno slancio (la necessità di trovare un posto nel mondo e nel cuore di qualcun altro), in una parola: delle emozioni, e tanto basta.
sabato 18 luglio 2020
Munyurangabo
Munyurangabo (2007) è un film basico, narrativamente utilizza degli elementi che principiano le storie fin dalla notte dei tempi, però il risultato è tutt’altro che dozzinale, nella visione del regista americano, discretamente personale con un occhio rivolto al documentario e l’altro ad una leggera contemplazione, si crea una vicenda in cui serpeggia un senso di attesa che protrae il possibile innesco, e quando capiamo che tale attesa diventa esattamente il racconto principale scivolano in secondo piano le mire di Ngabo e risalgono in superficie i veri fattori portanti dell’opera: un rustico ritratto famigliare, asciutto, amorevole, ridotto in un minimalismo che comunque contiene molto, e, allargando la prospettiva, il ritratto di un Paese che ancora non ha smaltito le scorie di un orrore recente (il padre e Ngabo che si lanciano reciproche accuse) e che galleggia in una povertà, per noi satolli spettatori occidentali, ammutolente.
Come profetizzato con il commento di Abigail Harm (2012), il debutto nel lungometraggio di Chung è ben diverso dalla successiva pellicola ambientata negli Stati Uniti, Munyurangabo al di là di essere un po’ “verde” e magari non troppo rifinito (ci sta, pare sia stato girato in soli undici giorni!), possiede ad ogni modo una struttura interessante che quasi sorprende, infatti per buona parte della proiezione siamo orientati a considerare Sangwa e i suoi legami di sangue il motore di tutto, in realtà, nel momento in cui il film si schiude, capiamo che il vero protagonista fino a quel momento latente è Ngabo (ovvero il diminutivo di Munyurangabo, ci sono arrivato giusto alla fine), e quando abbandona l’amico per compiere una specie di vendetta Chung alza il tiro indorando il cammino del ragazzo col machete di una polvere onirica (il sogno che riavvicina i due ragazzi controbilancia la possibile realtà dell’ultima immagine: si sono davvero riuniti?), non accade niente eppure l’atmosfera si pregna di una piccola solenne epicità, capiamo, in fondo, che quanto abbiamo osservato è un dettaglio che riproduce un disegno più grande, quello di una nazione invischiata ancora nelle vendette tribali e nell’odio. La lunga poesia del giovane al bar, tanto logorroica quanto struggente, è un canto di libertà letteralmente violentato dal fotogramma susseguente: Ngabo in piedi, immobile, che impugna il coltellaccio. Tuttavia ritengo che Chung in conclusione abbia voluto trasmetterci anche un briciolo di speranza, l’omicidio non si compie, il cerchio di ritorsione è interrotto da un ragazzino che potrebbe essere, anzi, senza potrebbe, che è il futuro.
Sputare responsi da dietro una tastiera è sempre facile, si può dire che Munyurangabo presenti delle imperfezioni, ma, dicendolo, non si tiene conto di un contesto produttivo che si immagina parecchio complicato (Chung si era recato in Ruanda perché la moglie faceva lì la volontaria), ed anche solo a livello burocratico (visti, permessi, ecc.) concretizzare un’idea in un esemplare di cinema è già un risultato notevole, se poi aggiungiamo le plausibili difficoltà comunicative e l’ingaggio di gente comune che mai era stata davanti ad una videocamera, allora il regista coreano-americano penso debba ritenersi ampiamente soddisfatto, e noi con lui perché il suo lavoro ha un equilibrio e una compiutezza che oggetti più altisonanti non hanno. Inaspettatamente, una bella sorpresa.
giovedì 16 luglio 2020
A Brief History of Princess X
Ma perché viene da definirlo “bizzarro”? Il corto, al di là della dignitosa confezione e degli amabili segmenti, pone un interrogativo su quale sia la percezione dell’arte da parte del fruitore, e si tratta di un atto svolto con un minimo di cognizione di causa perché Abrantes è anche pittore e perché in fondo anche il cinema può suscitare un vasto spettro di stimoli. Quello a cui assistiamo è un po’ il protocollo standard di ogni esemplare artistico capace di creare trambusto: alla base c’è sempre l’estro del demiurgo che inventa, che crea, e che subisce l’influenza del mondo che lo circonda (ecco, forse, del perché viene sottolineato in maniera così evidente il chiodo sessuale della pronipote di Napoleone), e poi c’è il pubblico, l’ultimo anello della catena, le cui reazioni possono divergere in un attimo, dall’immediato interesse al successivo spregiamento (arriva Duchamp e via a correre davanti all’orinatoio) fino ad uno scherno che però non va inteso in modo così negativo, è emblematica la scena del ragazzino con il selfie-stick che compie un gesto comune, di quelli che facciamo tutti, dove ciò che non si comprende, forse perché in fondo in fondo spaventa, viene deriso, sbeffeggiato, deprezzato, ma non c’è alcuna morale né alcun additamento da parte di Abrantes, anzi, lui se la ride!, e anche a noi, sempre con rispetto verso l’arte, un sorriso ce lo concediamo.
martedì 14 luglio 2020
Tempestad
Neanche a dirlo tale strategia che cela l’oggetto dell’esposizione e che non ricostruisce né finzionalizza, stimola l’apparato sensoriale che si impegna ad immaginare tutto ciò che dalla nostra agiata posizione ci è possibile immaginare: la paura assoluta, il senso di perdita, la morsa dell’ingiustizia. Alla base di Tempestad c’è quel cinema vagamente “sperimentale” che nei decenni ha preso le mosse da Chris Marker, la congiunzione tra l’apparato narrativo e quello estetico che si compie ha una valida ragione d’essere, senza toccare picchi di intensità sconvolgenti (e forse ciò è dovuto ad un leggero disequilibrio delle due vicende, quella legata al circo ci mette di più ad ingranare) c’è molto da assorbire, da captare, da constatare, e uscendo dalla sfera umana delle vittime abbiamo un ennesimo resoconto di quello che è un cartello messicano, in passato è già capitato a chi scrive di impattare con l’orrore di questi feroci trafficanti, accantonando un attimo la settima arte il consiglio è di andare a leggere La parte dei delitti contenuta in 2666 di Roberto Bolaño, uno dei romanzi chiave degli ultimi vent’anni, invece ritornando nell’area cinema va sicuramente citato Gianfranco Rosi con El Sicario, Room 164 (2010) che in fondo ha utilizzato una tattica per certi versi simile a quella della Huezo (il “mostrare” attraverso le parole) e il tour de force di Refn che con Too Old to Die Young (2019) ha puntato sulla spettacolarizzazione (e l’estetizzazione) della brutalità, a questi, e indubbiamente ad altri titoli che non conosco, l’accostamento di Tempestad è legittimo e soprattutto arricchente perché fornisce un punto di vista inedito che non lesina colori e sfumature private vibrando in un mood confidenziale che fa breccia, come l’ultima strepitosa istantanea qua sotto.
domenica 12 luglio 2020
CERN
Girato nel 2013, e quindi giusto un anno dopo la prima rilevazione del bosone di Higgs, CERN si iscrive nel filone geyrhalteriano, di cui fanno parte anche Pripyat (1999) e Elsewhere (2001), strutturato in questo modo: interviste, o meglio monologhi perché non si sente mai la voce del regista che fa le domande, più riprese statiche senza commento alcuno dei luoghi oggetto dell’opera. La parte colloquiale è inframezzata da degli stacchi in nero (vero marchio di fabbrica dell’austriaco) che differiscono dalle opere precedenti giusto per l’inserimento di nome, cognome e ruolo di chi sta parlando, mentre le cartoline provenienti dai diversi settori mantengono quel fascino sci-fi che ci si aspettava avessero, e se Geyrhalter si fosse soffermato di più su queste parentesi, se si fosse lasciato andare maggiormente ad un tono meditativo, dal punto di vista autoriale il progetto ne avrebbe giovato, ma trattandosi di un film per la tv non si può pretendere chissà cosa. È chiaro che CERN sia un prodotto illustrativo che mira più alla divulgazione che ad una traiettoria artistica, se non si è degli acerrimi integralisti ritengo che ciò sia accettabile, e comunque Geyrhalter non fa mai dei depliant da sfogliare distrattamente, ogni sua prova invita a riflettere su di noi e sulla società che viviamo.
venerdì 10 luglio 2020
Among the Black Waves
Che cosa ci rimane dunque di Among the Black Waves? Oltre alla scontata ed ennesima conferma dell’animazione contemporanea come chiave creativa per accedere a tematiche per nulla leggere, il suo messaggio è un monito contro il machismo, esagero? Probabilmente sì, e poco mi importa: nell’azione del pescatore si legge una tendenza ancestrale del maschio a voler ottenere il femminino (in primis il corpo, certo, e più in profondità anche il suo amore) a qualunque costo (per la Budanova anche al costo della pelle), ed è inevitabile che un tale comportamento prevaricante e coercitivo non può che creare lacerazioni e marcati disequilibri. Nella vita al di qua dello schermo la tragedia è spesso il triste epilogo, qui, invece, grazie alla curiosità della figlia, la catena si spezza e in un discreto finale assaporiamo il ritorno all’emancipazione di lei e la correlata disperazione di lui.
mercoledì 8 luglio 2020
Granny’s Dancing on the Table
È facile trovarsi a metà del guado, distanti nella stessa misura da un’opinione opposta o giù di lì all’altra. L’acqua, cari amici, è tiepida. Al pari della palette di colori scelta da Ita Zbroniec-Zajt, direttrice di fotografia polacca assoldata da Frammartino per Alberi (2013), che fornisce una tessitura estetica vicina alla concezione che si ha di un’ “atmosfera” scandinava, e pari, ovviamente, all’essenza del film in sé che continua a dibattersi (ma lo si sorveglia facilmente, è docile in fondo...), a farti propendere per un’ammirazione, sebbene contenuta, verso l’ampio respiro generazionale che riesce a trasmettere impiegando appena quattro fantocci di cera, e una correlata noncuranza, ugualmente misurata, nei riguardi del disegno globale che alla fine si profila. Perfetto, ho praticamente ripetuto i concetti del paragrafo soprastante cambiando qualche parola, non è affatto un buon segno, se un film, in sede di analisi, fa scivolare nell’afasia, quindi è bene non perdere ulteriore tempo, solo una cosa mi va ancora di sottolineare: esattamente come la storia nella sua totalità si dimostra anodina pur tentando l’affondo nella tragedia dopo un baloccamento tra fiaba e memoir, anche il nodo umano (e narrativo) relativo al rapporto mnemonico-epistolare tra Eini e la Nonna si barcamena nel sentire medio, ma caruccia, comunque, la figura della nonnina sprint che si è goduta la vita più dei suoi parenti, è lei l’unico personaggio ad aver spezzato la catena dell’esistenza ritirata, e la Sköld lo rimarca con la danza nei titoli di coda.
lunedì 6 luglio 2020
DAU. Katya Tanya
Tra il 2009 (ma alcuni siti riportano il 2008) ed il 2011 allestisce in Ucraina, presso la città di Charkiv, una gigantesca struttura che ricrea in maniera certosina un fantomatico Istituto sovietico (è la riproduzione di un centro di ricerca segreto ubicato a Mosca che fu attivo dal 1938 al 1968), in un’area di riprese da oltre dodicimila metri quadrati che pare si sia guadagnata la nomea di set più grande d’Europa (e si presume anche del mondo) dove, attraverso un poderoso sforzo produttivo tra Europa e Russia, ha costruito una specie di realtà parallela perfettamente abitabile, vivibile, si dice infatti che centinaia e centinaia di “attori”, divenuti tali poiché parte concreta del progetto ma entrati dentro ad esso come tecnici, scienziati, filosofi e via dicendo, abbiano vissuto per davvero all’interno di questa ciclopica Synecdoche, New York in salsa stalinista (e quindi abbiano indossato gli abiti d’epoca e mangiato e bevuto cibi di quel periodo) facendo sì che la distanza tra ciò che erano ed il ruolo che interpretavano si assottigliasse fino a svanire. Non è chiaro con quali modalità ma ci sono molti nomi di celebrità anche al di là dell’universo cinema che hanno fatto parte di DAU: Gerard Depardieu, Marina Abramović, Willem Dafoe, Charlotte Rampling, Brian Eno, perfino il nostro Carlo Rovelli che, insieme a Gianluigi Ricuperati (lo scrittore dall’esperienza ne ha tratto il romanzo Est edito da Tunué nel 2018), rappresenta la quota italica. Il titolo di questo esperimento cine-sociale prende il nome dal fisico Lev Davidovič Landau perché nell’idea iniziale Khrzhanovskiy voleva semplicemente (?) fare un biopic su di lui, ma il risultato che ne è conseguito parla di circa settecento ore complessive di girato tanto che sul sito ufficiale (link) si contano tredici film (ma sarà corretto definirli film?) che plausibilmente verranno pian piano resi disponibili. Facendo un passo indietro, il primo contatto tra DAU ed il resto del mondo avviene, dopo numerosi annunci e altrettante smentite, a Parigi il 24 gennaio 2019 con una mega video-installazione che coinvolge il Centro Pompidou insieme a due teatri parigini, qui Khrzhanovskiy proietta a ciclo continuo il suo ciclopico blob in un diorama sovietico che a sua volta rimanda a quello dell’Istituto, un articolo apparso sul Sole 24 ore ne parla come di un “flop colossale”. Un anno dopo le prime due parti di DAU vengono presentate a Berlino ’20. Qualunque cosa sia DAU, se un film, un’opera d’arte contemporanea o una mastodontica baggianata, sarà comunque una pietra angolare con cui si dovrà fare i conti, probabilmente la sfida cinefila più esaltante degli anni venti.
Con Katya Tanya (2020) viene introdotto un nuovo personaggio nell’universo DAU: è Katya, giovane bibliotecaria dell’Istituto, per la quale Khrzhanovskiy, nuovamente assieme a Jekaterina Oertel, costruisce un tipo di preambolo che finora non avevamo ancora visto nel suo progetto, un vero e proprio antefatto ambientato nel ’42 che snocciola un’informazione essenziale: Katya ha amato e Katya ha perduto. È una premessa che si disallinea un po’ dalla teoria generale perché è improntata ad una finzionalità che illustra un breve flirt tranciato dalla guerra a suon di dissolvenze in nero (saranno una costante queste dissolvenze, un elemento di “novità”), e quindi dall’introduzione si apprende già dove andrà a bazzicare anche il tassello sotto esame, ovvero in quell’area da melodramma sovietico che a ’sto punto pare essere un aspetto fondante dell’intero, mastodontico, scheletro, sicché non stupisce allora che nella prima parte (perché Katya Tanya è nettamente bipartito), dove Landau si infatua della bibliotecaria, è interessante registrare l’angolo di visuale usato da Khrzhanovskiy per tratteggiare il caro Dau, un angolo, al pari dei precedenti esemplari, umano fino al midollo. Ok Tanya e il suo cuore incasinato, ma la prima ora è tutta una radiografia del modo di intendere un legame da parte del fisico, e in sostanza si rimarca quanto visto in DAU. Three Days (2020), ovvero di uno spirito libertino fautore di quella che vorrebbe lui fosse una relazione aperta con la moglie Nora, e a proposito della consorte, vedendo l’accondiscendenza di quest’ultima verso la cotta del marito, stride un goccio l’atteggiamento da lei tenuto, come se cadesse dalle nuvole, durante le ramanzine della madre in DAU. Nora Mother (2020), Khrzhanovskiy non è stato attentissimo alla coerenza narrativa da un film all’altro? Non saprei, potrebbe essere anche che l’amore di Nora è così cieco da non farle vedere la realtà dei fatti, almeno fino a quando è stata sua madre a dirglieli. Ad ogni modo, com’è come non è, Landau alla fine, nonostante sia un genio, risulta incapace di gestire un banale triangolo e quando esce di scena è ancora un uomo solo che nei rapporti personali non riesce a trovare la formula giusta.
Episodio dopo episodio stiamo assistendo ad una standardizzazione sia nel comparto estetico che in quello del racconto. Piaccia o meno, la maggioranza delle riprese avvengono negli interni dell’Istituto con qualche rara immagine esterna per lo più incentrata sugli attori che passeggiano, i toni piuttosto cupi, austeri (ricordo che si è scelto di usare un’illuminazione naturale) si accompagnano a scambi dialogici che in quanto a set si ripetono abbastanza, o intorno ad un tavolo o in qualche corridoio/stanza dove gli interlocutori sono circondati dagli altri soggetti che in quella linea temporale popolano il centro scientifico, si tratta dunque di uno schema, se parlassimo di una serie tv nessuno si sognerebbe di sottolinearlo, ma essendo che DAU è molto di più di un prodotto da Netflix, il sottoscritto, che non è arrivato neanche a metà del mosaico globale, un pizzico di rimostranze si sente di muoverle in virtù dell’assenza di un qualcosa che sappia realmente sorprendere. Il fatto è che quando Khrzhanovskiy esce un attimo dalla composizione prefigurata, la fiction, con tutte le poco carine caratteristiche che si porta appresso, viene a galla: si prenda ad esempio il momento chiave dell’amplesso tra il viscido Trifonov e Katya, sorvolando sulle motivazioni della ragazza ad accettare le avance del futuro direttore dell’Istituto (è una ripicca nei confronti di Dau? Se sì non è stata sviluppata granché bene), il “casuale” ingresso dello scienziato proprio durante il rapporto sessuale in pieno svolgimento suona come una forzatura bella e buona che non mi sarei aspettato di vedere in DAU. Detto ciò, poco o nulla si toglie alla complessità di un tutto che ricade in ogni pezzo ad esso appartenente, la veridicità e la credibilità non vengono intaccate e sicuramente Tanya, al pari della protagonista di DAU. Natasha (2020), è ad oggi la figura femminile più forte, convincente, fragile e contraddittoria apparsa sullo schermo.
E arriviamo alla seconda parte che inizia suppergiù dopo sessanta minuti, e nell’ottica di un possibile equilibrio non è esattamente un inizio perfetto perché con una durata totale che supera di poco i cento minuti titoli di coda compresi, la matematica dice che per presentarci l’altra metà del film (e l’altra metà della mela), la giornalista Tanya, Khrzhanovskiy ha a disposizione neanche tre quarti d’ora dove deve intessere il rapporto tra le due amanti, implementarlo, far raggiungere un acme e poi intraprendere l’inevitabile discesa diretta al distacco (che sarà super tragico). I vari step, riscontrabili, sono in effetti troppo compressi e le cose succedono con una rapidità che cozza con la tanto agognata modulazione del reale ricercata. Insomma, tempo zero tra Katya e Tanya scoppia una passione che le travolge, peccato non riuscire a cogliere quell’energia che potenzialmente sarebbe potuta scaturire a causa di un formato che costringe la storia ad andare più di corsa di quanto dovrebbe, peccato, anche, che la risoluzione della liaison saffica si rifaccia ad un escamotage già utilizzato sia in Natasha che in DAU. Degeneration (2020), è ammissibile che si voglia costantemente rimarcare il clima di controllo assoluto che vige nell’Istituto, però in fin dei conti abbiamo sempre un interrogatorio che distingue chi esercita dispoticamente il potere (non c’è ancora Azhippo ma è riconoscibile un già visto tizio baffuto) e chi tale potere lo subisce senza poter reagire.
Considerando l’impennata drammatica del finale che, brusca e impattante, ci può stare come capolinea funereo, non posso dire che Katya Tanya abbia tanto in meno di chi l’ha preceduto, sì le faccende legate al fittizio che ogni tanto sembra far capolino ci sono come un’edificazione amorosa affretatta, però sono osservazioni che avverto prendere piede più per via di una comparazione con le altre finestre di DAU viste che per tangibili difetti presenti nella singola puntata, che poi mi rendo conto che i confronti più frequenti si verificano con Degeneration perché è l’opera che totalizza il pensiero di Khrzhanovskiy in relazione al suo Golem sovietico e ogni ulteriore manifestazione che si palesa sembra provenire da lì. Se ci si emancipa dal paragone, cosa che auspico spesso in fase di giudizio, allora ritengo che potremo arrivare sani e salvi, oltre che un po’ più ricchi, alla fine di quest’epica maratona.
venerdì 3 luglio 2020
Arekara
Mi correggo: di più ci sono alcune immagini raccolte dalla regista accompagnate musicalmente da Nat King Cole che spezzano i monologhi dei superstiti (nei paesaggi post-apocalittici – innevati tra l’altro, come se ci si trovasse in un film di Lopušanskij – rimane un autobus in bilico sul tetto di un edificio), è una scelta particolare quella di inserire un morbido brano del cantante americano perché cozza un po’ con lo sfascio immortalato, tuttavia, a ben vedere, lo spirito del progetto non sembra indirizzarsi verso una cupa elegia ma, al contrario, come si può desumere dal titolo inglese, è orientato a cogliere la vita che c’è dopo. La parola chiave è apputno vita: inevitabilmente quella vissuta dall’umanità segnata dalla catastrofe, nelle loro testimonianze, nei loro ricordi, uguali, per filo e per segno, alle affermazioni di qualunque altro soggetto reduce da un cataclisma a random, il che crea una sorta di fratellanza globale dove i mariti hanno perso le proprie mogli o dove una risata può ancora esorcizzare la paura. Si parla del domani qua e della sua quintessenza: la Speranza, che Momoko Seto, lontanissima dalle astrazioni sperimentali di Planet ∑ (2014), recapita a chi guarda con tutto il rispetto e l’umiltà possibili.