lunedì 22 febbraio 2016

Rusalka

Aleksandr Petrov si abbevera alla fonte mitologica: rusalka è la parola che indica un tipo di divinità appartenente al folklore slavo-russo, si tratta di un’entità femminile che vive nelle acque dolci e che non è ben vista dal popolo sulla terra ferma in quanto sarebbe l’incarnazione di una donna suicidatesi per cause riconducibili alla prepotenza maschile. Praticamente si tratta di una versione alternativa al mito delle sirene e Petrov non fa altro che fornirci un possibile quadretto tra il fiabesco e l’onirico che ha come protagonisti un giovane monaco e una di queste ammalianti creature; come sempre il livello realizzativo è elevato e si attesta nella particolare tecnica di pittura su vetro, Petrov non si risparmia nelle intenzioni cromatiche e riempie ogni centimetro della sua tela con una carica portentosa che investe, che tracima in un romanticismo deflagrante. Al pari di tutti gli altri lavori del russo (con un aggancio notevole ad alcune similari ed esuberanti sequenze di Moya lyubov, 2006) le accelerate visionarie che ogni tanto colmano lo schermo meritano un sacco, trascinano in un vortice di tempere che diventa uragano di fantasia, trascinante, nel suo piccolo, fino a mozzare il fiato (in Rusalka [1997] ci sono almeno due scene che hanno la potenza di cui sopra e che forniscono il quid pluris che tanto ricerchiamo).

E i difetti? Presenti, ovviamente. E sempre nello stesso settore che è quello della scarsa dinamicità, dei movimenti impastati e sabbiosi. L’assenza di una fluidità visiva incide davvero tanto sulla riuscita dell’opera sotto esame e di tutte le altre dell’animatore, senza esclusioni, tanto che se vogliamo parlare di animazione viene difficile vedere ciò che produce come un qualcosa di animato, di vivo, i suoi dipinti in movimento hanno uno stile identificabile al primo sguardo e punteggiato da virtuosismi pregevolissimi, ma per il sottoscritto manca qui e là l’ingrediente base, ed è paradossale perché i film di Petrov hanno una grossa carica sentimentale, eppure non basta: meno maestria ad un passo dalla supponenza e più cuore nel voler raccontare. Non gli si chiederebbe altro.

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