Per il suo secondo film
Cory McAbee riprende l’originale mondo che aveva creato ex novo
con The American Astronaut (2001), un rimodellamento con
annessa fusione di forme e generi, cinema “artigianale” che non
ha vergogna di mostrare la propria esilità e che al contrario
ne fa un vezzo: tutto è puerile, basilare, disposto a rivelare
l’artificio, e questo tutto funziona perché McAbee è
consapevole delle azioni che compie; dalla storia che rappresenta
l’archetipo narrativo per eccellenza, quello dell’eroe che deve
salvare la principessa segregata dal villain, alla
fantascienza d’ingegno dove una navicella spaziale è
chiaramente un modellino-giocattolo, Stingray Sam scorre con
amabile leggerezza per merito di un valore da non trascurare:
l’autoironia.
Il fatto che McAbee sia
il primo a non prendersi sul serio (è lui l’attore
protagonista) parodiando la figura dell’eroe (e lo si dice già
nella sigla d’apertura che Stingray non è un eroe, lui è
semplicemente un cantante lounge), facendogli compiere gesti
non-da-eroe (la ridicola stretta di mano col compare), rendendolo
sotto un certo punto di vista uno sconfitto dato il divertente finale
con la bimba, permettono al film di acquistare una levità
d’alto profilo, una capacità di saper intrattenere pur
avendo una sostanza aeriforme: è qui, in una piccola
produzione indipendente come Stingray Sam, che l’essenza
diventa aspetto, piacere nell’assistere alla strampalaggine delle
parentesi musicali, agli inserimenti finto-archivistici di collage
altrettanto fintamente agèe, ad una particolare
struttura di stampo seriale (sei episodi con sigle che aprono e
chiudono il singolo segmento) in grado di fidelizzare in appena
sessanta minuti lo spettatore. Ottimo lavoro Cory.
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