UN AUTOBIOGRAFISMO
(perdonatemi)
Come tutti, anche io ho
avuto il mio periodo-Wallace. Ed è stato un periodo
fantastico, forse l’unico da lettore in cui la necessità di
sapere cosa c’era nella pagina successiva mi faceva divorare le
parole, andavo così veloce ed ero così bramoso di
sapere che spesso le saltavo involontariamente durante la lettura, mi
smarrivo in una mole poderosa di lemmi, trovavo instabile rifugio
nelle note a piè di pagina. Dirò una cosa scontata:
Wallace ti cambia, come persona-che-legge, come persona-che-vive, da
quando acquistai per sentito dire la raccolta di racconti Oblio
ed incominciai a leggerla fui, al pari di voi, trascinato in una
letteratura aliena, quello che c’era scritto, il come, non aveva
niente in comune con le stronzate che ci avevano imbottito la testa
fin dalla scuola. Ogni singola lettera che DFW ha battuto in tutta la
sua vita è un segno di assoluta e cogente contemporaneità,
ma non solo: perché un genio è tale quando sa
anticipare i tempi e Infinite Jest, che ritengo un testo
parificabile alla Divina Commedia, è stato un libro
profetico, colossale, la materializzazione cartacea della complessità
odierna avvolta nella tecnologia globale. Dentro IJ c’è
Facebook, Twitter, Instagram e una miriade di altre cose che con ogni
probabilità non sono stato nemmeno in grado di cogliere.
Potranno sembrare parole da fanboy le mie, di uno che ha seguito
Wallace perché è di moda sbandierare una lettura da
oltre mille pagine, potrà anche essere, non so, tuttavia ho
cercato di saltare lo steccato del recinto wallaceiano
esplorando altri massimalisti americani e ho tremato e tremo tuttora
dall’emozione davanti a giganti come Pynchon o Vollmann. Ma con DFW
è stata un’altra cosa, una connessione oserei dire
personale, nonostante età e contesti sociali differenti, posso
affermare che, come penso tutti quelli che lo hanno letto e
apprezzato, nei suoi libri ha saputo dare voce ai nostri pensieri e
alle nostre paure, anche quelle di un ragazzo qualunque come me nato
nell’anno in cui venne pubblicato La scopa del sistema.
Io credo che a questo figlio d’America, corpulento, depresso,
alcolista e tv-dipendente, ho voluto bene davvero, ed ogni volta che
mi ricapita fra le mani la biografia di D.T. Max Ogni storia
d’amore è una storia di fantasmi,
non riesco a reggere lo sguardo di David in copertina che è
come se mi dicesse: “ehi tu, che cazzo stai combinando nella
vita?”.
In
riferimento a The End of the Tour
(2015) direi che è un film totalmente inutile. Non è
colpa di Ponsoldt, Lipsky o Segel, il lavoro che c’è
dietro immagino sia molto meticoloso e molto fedele alla realtà
dei fatti, il problema è che i film biografici et similia
sono inutili di per sé. Anche questo si accoda alla moda
statunitense degli ultimi vent’anni di ritrarre i propri pargoli
per consegnarli all’attenzione del pubblico, un pubblico che in
buona parte dei casi non ha neanche la lontana idea di chi si sta
parlando (e per DFW è probabile che sia così), il
problema, sottolineato paradossalmente proprio dal Wallace di
quest’opera spaventato da come Lipsky avrebbe potuto travisarlo nel
suo articolo (“vorrei decidere io la percezione che gli altri hanno
di me”), è che in un biopic la resa del personaggio è
per forza di cose deformata dalla lente del demiurgo di turno che
potrà anche essere il più certosino possibile nella
ricostruzione del personaggio ma che comunque sia attua una
finzionalizzazione, inquina l’originarietà col suo punto di
vista, sporca l’icona. Potrà apparire un discorso assurdo,
ne convengo, in fondo alla maggior parte degli spettatori non gliene
frega nulla della restituzione descrittiva di una biografia, il
sottoscritto, al contrario, ha sempre avuto una marcata intolleranza
nei confronti del genere, soprattutto in un caso come questo dove il
focus d’attenzione è un argomento che mi permetto follemente
di definire “mio”, eppure, e ora fornirò una prova di
grande squilibrio mentale/argomentativo/emotivo, proprio per una
sorta di affetto letterario che mi avvicina a DFW è stato
al di là di tutto “bello” vedere una sua concretizzazione
corporale dentro al mezzo cinema, l’apparizione bandanesca, seppur
artefatta, ha acceso l’interruttore dei sentimenti diffondendo quella
specie di felicità che si prova nel rivedere un amico lontano,
un amico che in questo frangente non avevo mai visto, a parte su
Youtube.
Costituito da un impianto
classico tutto giocato sul campo/controcampo, The End of the Tour
si modella nello scambio dialogico riuscendo a non risultare tedioso,
l’avvicinamento del pianeta-Wallace da parte del satellite-Lipsky
è punteggiato da una piacevole ironia (tipica dello
scrittore), tutto scorre in modo ordinato e, per la dimensione del
film stesso, ovvero cinema americano di seconda fascia (quindi più
dignitoso della prima), irreprensibile. Almeno fino alla conclusione.
Qua, per questioni puramente soggettive, mi sono sentito come uno dei
personaggi de Il re pallido che nei momenti di massima
concentrazione raggiungeva una piccola estasi capace di sollevarlo di
due dita dalla sedia, perché quando un brano a cui sono
particolarmente legato come The Big Ship [1] (vedi qui) inizia
ad accompagnare le immagini finali, io non so proprio più che
dire a Ponsoldt, se non grazie.
____________
[1] Il capolavoro di
Brian Eno era apprezzato anche da Wallace che pare lo ascoltasse
ininterrottamente ai tempi del college.
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