Ma The Act of Killing
(2012) poggiava su uno scheletro teorico decisamente più
possente! Comunque: se inferiore sul piano prettamente concettuale o
meno, The Look of Silence (2014) contiene risvolti ed anse in
cui la nostra disagevole sosta (il disagio della visione, qui, è
un pregio) fa germogliare impressioni, del tipo: anche se non abbiamo
più il tremendo cortocircuito cinematografico delle
ricostruzioni da parte degli assassini di fronte ad Oppenheimer, le
quali scatenavano un moto potentissimo capace di donare nuovi sensi
alla dualità realtà/finzione, l’inchiesta del
coraggioso Adi, un uomo dal mestiere metaforico: è un ottico i
cui occhiali dovrebbero permettere ai sicari di vedere finalmente la
verità, scoperchia tutta una sequela di meccanismi
psicologici rintracciabili nelle epoche buie della storia dell’uomo,
quindi nella sua storia tout court. Sentendo i killer, incalzati
dalle domande di Adi, dislocare la colpa ai superiori non può
che ricordare gli infausti eventi nazisti, solo che in Indonesia
l’impunità di questi bastardi ha permesso a tutti loro di
condurre una vita agiata e ossequiosamente riconosciuta dalla
comunità: nel film precedente li vedevamo invitati nelle tv,
in The Look of Silence scopriamo che uno di loro ha scritto un
libro illustrato sulle proprie angherie (fintamente ignorato dai
famigliari). L’importanza del lavoro di Oppenheimer è
capitale nel momento in cui si certifica il fatto che, nonostante
siano passati cinquant’anni, né la morale dei macellai (ma
ciò era preventivabile) né quella della maggior parte
dei singoli cittadini ha fatto suo il concetto di “rimorso”,
l’aspetto del silenzio ammanta lo schermo esattamente quando
Adi, attonito di fronte alle dichiarazioni dei suoi interlocutori, è
paralizzato da un’afasia che gli fa luccicare gli occhi. La
denuncia di Oppenheimer che procede grazie alla tenacia dell’oculista
dardeggia con spirito umanistico un sistema appoggiato sull’errato
mantra il passato è passato, riprendendo l’eloquenza
degli abissi presenti: un’insegnante vomita concetti
propagandistici su dei piccoli alunni, lo zio non prova rimpianti per
non aver cercato di aiutare il nipote imprigionato.
Dopo la constatazione che
la regressione intellettiva del ’65 ha provocato un adombramento la
cui gittata è arrivata incolume fino ad oggi, Oppenheimer
mostra per la prima volta in due film che l’umanità ha
ancora una nicchia/rifugio dove trovare un minimo di pace. Il
ritratto della famiglia di Adi si autosospende dalla nebulosità
del male per tangere, addirittura, una poesia inaspettata fatta di
saggezza e dolce oblio; la figura del padre, uomo oltre le età
ed i ricordi, è l’impersonificazione di uno Stato violentato
e cieco i cui figli sono stati sbudellati ed evirati in nome di
chissà cosa.
Con questo dittico
Oppenheimer ha compiuto un atto politico che fa tremare il nostro
sguardo di agiati occidentali, è documento prima che
documentario, e come il Rithy Pahn de L’immagine mancante
(2013) si fa portavoce di un cinema improntato all’emersione
storica e, magari un giorno, fautore di quella giustizia che i
famigliari delle vittime attendono da troppo tempo.
Si rimanda per
correttezza alla recensione di Alessandro Baratti la cui lettura ha
stimolato le mie parole (link).
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