Prefazione: prima del
film non sapevo niente di niente a proposito di Yves
Henri Donat Matthieu-Saint-Laurent,
né della sua vita né della sua attività
artistica, parimenti non sapevo e non so tuttora niente di moda e di
storia della moda. Questo per avvertire i lettori di una possibile
presenza di castronerie nelle righe sottostanti.
Analizzare
Saint Laurent (2014)
attraverso la chiave dell’Identità, architrave dell’intera
filmografia bonelliana, è un procedimento che per me non porta
ad un risultato particolarmente appagante. Tuttavia le osservazioni
di Manuel Billi (link), pur non condividendole in toto, sono molto
interessanti perché il recensore mette argutamente in evidenza
la traslazione identitaria da uomo di successo a mero brand acquisito
da terzi, ciò è evidente e in un certo qual modo
potremmo vedere un proseguimento concettuale nel cinema di Bonello,
al contempo è altrettanto evidente che Saint Laurent si
rivela per gran parte della sua durata l’opera più lineare
del cineasta francese, quella che risponde in modo disciplinato alle
leggi del mercato, ovvio che non dobbiamo confrontarci con la patina
massificante del mainstream perché Bonello è un Autore
vero ed anche in una manifestazione docile getta dei semi, però
la mancanza di un pilastro teorico fondante lascia il film in balia
degli eventi storico-biografici piuttosto che applicare un’idea al
mezzo di espressione e lavorare su di essa. Se pensiamo a Tiresia
(2003) o alla vetta House of Tolerance
(2011), film-studio dalla seducente polisemia, il biopic sul celebre
stilista nato in Algeria non regge il confronto, anche perché
nell’illustrazione dei fatti andiamo a scontrarci con i tipici
episodi di uomo tutto genio e sregolatezza, e quindi condotta
dissoluta, fragilità, narcisismo e via dicendo. Niente di
stupefacente, insomma.
Doveroso
però riportare anche lo sparigliamento che avviene dopo circa
novanta minuti di girato. Qui entra davvero in scena un po’ di quel
Bonello che apprezziamo e allora ecco la messa in fuga
dell’uniformità narrativa: con lo schianto esistenziale di
YSL (storie di droga, depressione artistica, ecc.) la pellicola
subisce uno smottamento interno. I buchi temporali crivellano la
storia facendoci compiere progressivi salti in avanti e repentini
passi all’indietro, il flipper dell’ultima porzione ravviva ed
infiamma: di più: sale in crescendo verso i preparativi della
sfilata conclusiva che nel compiersi viene esposta con la fastosità
tipica di quel mondo, e Bonello rincara affidandosi ad un quadro
suddiviso in split-screen che fa proliferare le immagini, il tutto
senza risultare lezioso nonostante il contesto sia così
laccato. Ma è nella chiosa finale che il regista sa porre
l’accento maggiormente gratificante, mettendosi lui stesso nella
diegesi (è uno dei tre giornalisti che confabulano su come
titolare il giornale dopo la presunta morte di Saint Laurent) diventa
testimone dello spettro artistico dello stilista, eternandolo nel
luminoso primo piano che giunge alla conclusione. E da lì
all’agiografia la distanza si fa sottile.
Postfazione: in sintesi
mi sento di proferire che: per coloro i quali sono interessati alla
vita di Yves Saint Laurent allora il film in questione susciterà
non poca attenzione (del coetaneo Yves Saint Laurent di Jalil
Lespert si parla malino, quindi meglio orientarsi su questo), per
quelli che invece hanno più a cuore le sorti cinematografiche
di Bertrand Bonello allora il discorso cambia, la piena soddisfazione
non è garantita, ma una deviazione dal percorso autoriale è
elargibile.
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