Solo l’“affetto” di
vecchia data può spingerci alla visione di un nuovo film di
Kim Ki-duk, l’eventualità che il suo cinema post-Arirang
(2011) possa regalare ciò che in fondo chiediamo ad una visione: un
buon film, con tutto quello che può voler dire e non dire,
appare una possibilità altamente remota. Dopo il discutibile
Leone d’Oro a Pietà (2012), nel 2013 il sudcoreano
viene nuovamente accolto nella kermesse veneziana (questa volta fuori
concorso) con Moebius, e, forse memore dei fasti di Ferro 3
(2004), opta per la radicale soluzione di eliminare i dialoghi (di
recente aveva perseguito la stessa scelta col film d’intermezzo
Amen, 2011); la decisione è coraggiosa ed al contempo
pericolosa: è lampante notare come il nuovo corso kimmiano,
asciugato delle forme liriche che elevavano le produzioni del
passato, punti ad un cinema drasticamente semplice, basico,
immediato, è come se non ci fosse più niente nel
cassetto dei segni (/sogni), Kim è diventato visibile,
rozzo (il digitale come una spada che infilza gli attori), ostinato
nell’urlare. Qui, per esempio, già nei primi dieci minuti la
madre evira il figlio e inghiotte il pene mozzato. La portata di
violenza e disumanità, costante e crescente per tutta la
durata dell’opera, perisce sotto il crollo di un metodo espositivo
trasportato in un eccesso non dovuto, è probabile che se lo
script fosse stato maneggiato da Sion Sono il risultato sarebbe stato
infinitamente più convincente.
Il sottoscritto imputa a
Kim l’imperterrita tendenza a voler incrementare la gittata
drammatica scena dopo scena. Se prendiamo il già citato Ferro
3, altro film (quasi) muto che, a onor del vero, non aveva
risvolti così tragici ma si fondava su presupposti ancor più
irreali di Moebius, era facile carpire la bravura di Kim nella
creazione di un mini-mondo dall’impalpabile essenza, sfuggente,
leggero (come la famosa bilancia del finale), l’esatto contrario
dell’opera sotto esame inzuppata di turpitudini. Nessuno si
scandalizza per gli obbrobri messi in atto, allarma, invece, la
preoccupazione del regista di edificare il proprio pensiero su una
riproposizione senza ossigeno di un medesimo concetto esacerbato di
volta in volta come a voler sbraitare sempre più forte, ma
ficcarci dentro agli occhi, senza filtro alcuno, l’Idea, non sta a
significare la conseguente soddisfazione nel recepirla. La rotolante frenesia di
Kim finisce per macinare qualunque cosa gli si pari dinanzi, così,
a seguito anche del tacito contesto che obbliga gli attori ad una
prosopopea tangente l’imbarazzo, il film dilaga in una sequela di
ridicolaggini che, davvero, lasciano interdetti per il grado di
demenzialità a cui si rifanno. Mi si potrà dire che era
voluto, che Kim aveva contemplato tutto il teatrino grottesco, ma lui
non fa “grottesco”, con il realismo che adesso propone è
impossibile che il girato possa apparire credibile allo spettatore,
l’in-credibilità non fa più parte del suo registro
creativo, ciò è un amaro dato di fatto.
Poi dentro ci sarà
tutta la psicologia che si vuole, Edipo, evirazione, ecc., ma se la
teoria non è affatto supportata come ci si può
interessare ad essa? La speranza, molto tenue, è che al pari
del ragazzino nel finale il cinema di Kim possa ricongiungersi
all’immaterialità, l’Occidente è già fin
troppo pieno di schifo per doverlo patire anche nei film orientali.
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