venerdì 30 agosto 2019

Gentili audiopercosse

Il senso di Animated Violence Mild, quello prettamente letterale, ce lo chiarisce la recensione di Pitchfork (link) dove viene spiegato che tale dicitura, coniata da un’associazione americana, riguardava alcuni tipi di videogiochi in cui erano presenti elementi di violenza che però non sfociavano mai in effettive mattanze o morti brutali. È un concetto davvero interessante se lo si applica alle otto tracce che compongono il quarto album di Benjamin John Power aka Blanck Mass ovvero il 50% dei Fuck Buttons (se non li conoscete e come me amate esplorare i vasti territori dell’elettronica fiondatevi subito su YouTube per venire invasi dalle loro produzioni), interessante perché la musica proposta dal compositore inglese nonostante sia talmente aggressiva da giungere, a tratti, in forma cacofonica, noise, alle nostre orecchie, riesce sempre a far intendere di come sotto la veemenza dei suoni investenti ci sia comunque un’idea, peraltro concreta e costante, di ritmo e musicalità. Perfino Death Drop (un titolo ben poco rasserenante), che è forse il pezzo più rabbioso del lotto, ha nella seconda parte delle aperture melodiche, questo contrasto tra elettricità abrasiva e linee / sfumature maggiormente “delicate” è pura linfa per il disco che in tal maniera si presenta con un bel ventaglio di sonorità, ad ogni modo sempre ascrivibili allo stile di Power & Hung. Vieppiù che anche l’artwork dell’album ricalca il concetto di fondo: un frutto sì e no dolce come una mela contiene all’interno del sangue, uhm. 
Brano utile per viaggiare in macchina con i finestrini spalancati in autostrada nel bel mezzo di un’anonima pianura padana a notte fonda: House Vs. House
Brano per il ritorno dalla pianura padana all’alba con vista autogrill in lontananza: Creature West Fuqua.

giovedì 22 agosto 2019

Vacanza permanente

Non si finisce mai di scoprire nel cinema, e così, dal nulla, emerge un tale Adolfo Arrieta che nel corso della sua sommersa carriera ha più volte modificato il proprio nome in calce ai film girati, i quali, a quanto si legge in giro, hanno certificato di come Arrieta non sia mai stato un personaggio dal curriculum “facile”, padre di una produzione che ha avuto un picco tra tra il ’72 e l’89 e che poi, complice l’avanzare dell’età, si è sempre più diradata almeno fino al recente Belle dormant - Bella addormentata (2016) che arriva a distanza di venticinque anni da Merlín (1991), nel mezzo una depressione artistica e alcuni oggetti non identificati in cui si iscrive a pieno titolo Vacanza permanente (2006), vero e proprio ufo che lascia interdetti: a parlarne male, che sarebbe la cosa più immediata da fare, c’è il rischio di dimenticarsi che ogni film di un’artista è la continuazione di quello precedente e pertanto, essendo il sottoscritto a completo digiuno nei confronti di Arrieta, sparare a zero potrebbe significare non avere rispetto di una veduta autoriale più ampia che si è protratta nel tempo, parimenti parlarne bene è un atto per niente facile perché pur avvertendo la presenza di un qualcosa dietro al flusso delle immagini, tradurre tale sensazione in parole congrue va al di là delle mie capacità interpretative.

Dopo essermi rifugiato in questa antitesi, credo che dentro Vacanza permanente si possa rintracciare dell’altro che non sia la sterilità di un atto artistoide. Probabilmente c’entra anche la biografia di Arrieta che prima del film aveva passato un brutto periodo personale, da qui il titolo, volutamente in italiano poiché parte delle riprese si sono svolte in Italia, che parrebbe darci una mano sul piano della comprensione; se si nota il rimbalzare apparentemente disomogeneo del regista avremmo con qualche sforzo, lo ammetto, anche un filo conduttore che va a situarsi nei momenti leggeri che la vita contempla, infatti il lavoro di Arrieta è modellato su un susseguirsi di parentesi amene riguardanti istantanee di persone che chiacchierano, che bevono ad un bar, che ballano in un locale, che si telefonano, è una specie di elogio del tempo libero, strano e ben poco costruttivo, che non dà di certo del tu allo spettatore, perché comunque la sua natura, plasmata in un digitale d’antan (l’unica copia rinvenibile in rete è un rippaggio di Fuori Orario), è un continuo sfuggire attraverso sembianze proteiformi che vanno dal film di montaggio (molte le sequenze di altre opere insertate nella proiezione, e se si tratti di roba appartenente al madrileno non lo possiamo sapere), al film casalingo (ritornano degli stralci domestici in cui Arrieta compare in carne [solo i piedi] e… materia grigia [un cervello, di plastica, come soprammobile]). Visione difficile dunque, al confine con l’arroganza para-intelletuale, cosa vuota ma con riserva, non si finisce mai di scoprire nel cinema, e ciò conforta sempre, e poi, anche se nulla c’azzecca, inaspettatamente il buio e un accendino riportano a Face (2009) di Tsai Ming-liang, è proprio vero allora che ogni film, e vale anche quando le menti che l’hanno creato sono diverse, è la continuazione di quello che l’ha preceduto.

mercoledì 14 agosto 2019

The Babushkas of Chernobyl

Di produzione e direzione completamente americane (alla regia ci sono due donne dall’esiguo curriculum filmico, Anne Bogart ed Holly Morris), The Babushkas of Chernobyl (2015) si occupa di renderci edotti sulla condizione di alcune vecchiette ritornate a vivere nei pericolosissimi dintorni dell’infausta esplosione avvenuta nel 1986, prima di preoccuparvi inutilmente sulla salute delle suddette vi anticipo che è tutto ok, le babushke del titolo (ovvero le attempate signore protagoniste [1]) stanno molto bene nonostante il terreno che calpestano, l’aria che respirano e l’acqua che bevono non siano esattamente “salutari”, e il documentario in sostanza è sintetizzato in tale concetto, è una storia illustrata che delinea un paradosso esistenziale: in un luogo avvelenato, mortifero, cimiteriale, delle persone continuano serenamente la propria vita, tanto che, come sottolinea un militare, statisticamente sono maggiori i decessi di chi non è più tornato nella dead zone rispetto a coloro i quali hanno deciso di rimpatriare. C’è, o ci sarebbe, della poesia, ma il taglio scelto dalle due registe è frenato da un mood non abbastanza autoriale per poter toccare quell’intensità che potenzialmente avrebbe, di sicuro, per il mio intendere cinematografico, avrei eliminato le parti esplicative con i vari esperti del settore poiché così facendo la dimensione a cui il lavoro si avvicina è più televisiva che artistica, ma va bene uguale, nessuno urlerà allo scandalo.

Rimangono i ritratti di questi tenaci donnoni infoulardati (ne avevamo visti di simili in un film folle di molto tempo fa: 4, 2004), della loro vita semplice e perfino felice nonostante siano pressoché sole al mondo (i mariti sono tutti morti), e ciò che meraviglia è la noncuranza nei confronti delle radiazioni nocive che aleggiano intorno, un’indifferenza che le rende ai nostri occhi delle donne simbolo di una prode resistenza verso un nemico invisibile, però, nonostante le buone intenzione, Bogart & Morris potevano dare di più allo spettatore, in fondo parliamo di un film molto didattico la cui composizione non riesce a restituire totalmente il senso di umanità che invece custodisce, ed essendo un prodotto pendente verso l’esplicativo anche il materiale antropologico viene esposto sottoforma di depliant quando, al contrario, si poteva puntare su registri ibridati per cogliere nel reale tutto quell’incredibile slancio narrativo che si annida al suo interno. Comunque, The Babushkas of Chernobyl ha un grande pregio, quello di mostrarci la stolidità di alcuni ragazzi che emulando le gesta di un videogioco e riprendendosi con una GoPro (le immagini originali vengono alternate al resto dell’opera) si sono introdotti nottetempo nelle aree interdette a chiunque sollevando una domanda davvero semplice: ma perché?
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[1] Come non ricordare la babushka più famosa al mondo proprio perché totalmente sconosciuta? Per ulteriori info clicca qui.

martedì 6 agosto 2019

Arena

Non ci si attendeva niente di diverso per Arena (2009), cortometraggio che viene riconosciuto come debutto da parte di João Salaviza anche se IMDb segnala altri due shorts precedenti, ad ogni modo il lavoro che valse una Palma in quel di Cannes al giovane portoghese si presenta come un titolo propedeutico a tracciare una linea autoriale che successivamente si modellerà in altri esemplari oltremodo simili tra loro, quindi già in Arena possiamo entrare in contatto con un quartiere disagiato pressoché identico a quello immortalato in Rafa (2012) o in Montanha (2015), e se l’ambiente è lo stesso anche gli esseri umani che lo popolano sono fin da adesso gli ultimi gradini della scala sociale, e facendo fede ad un proprio dogma anti-spiegazionista il regista prova (riuscendoci anche) ad immergere chi guarda nella realtà diegetica snellendo la narrazione fino a mostrare il duro osso delle cose che accadono con naturalezza, o perlomeno così ci appare.

Grazie a ciò non è più nemmeno tanto importante che cosa Arena racconti perché il suo spaccato di vita è solo una piccola faccia di un prisma derelitto costituito da ulteriori situazioni che brancolano nella medesima miseria, storie celate che eppure stanno lì, emergono in dettagli che a loro volta figliano altre minuzie e perciò ancora storie, di ragazzi agli arresti domiciliari, di ragazzini che fanno i delinquentelli, e dunque di genitori assenti, di istituzioni desaparecidos, di mancanze affettive, di latitanze legislative. Ecco, nel confine e nei limiti di un quarto d’ora Salaviza si preoccupa di recapitarci il mix di elementi sopraccitato con un andamento uniforme a cui non si rimprovera niente, alla fine questo sotterraneo sentimento di scoramento confluisce nel corpo di Mauro che in una lodevole scena si lascia cadere stremato a terra dopo aver contemplato il torrido cielo sopra la città, come se improvvisamente i problemi di una vita sbagliata (rinchiudere un pivello in un bagagliaio… bah, ne vale la pena?) lo avessero folgorato e subito tramortito.