Nonostante
lo preceda di diciassette anni, Rome désolée (1995)
si associa a Jaurès
(2012) per via di una struttura che Vincent Dieutre pareva avere già
ben chiara all’epoca (è il suo debutto): affrontare la realtà
esteriore per mezzo di un alfabeto immancabilmente personale, nel
senso: io parlo di me, eppure parlo anche di ciò che mi sta intorno,
nello specifico una Roma che è crocevia di vite (e di morti)
rimembrata dalle parole del regista che valgono le immagini in video,
fino a superarle. È un’alchimia specifica di chi utilizza metodi
di trasmissione come quelli di Dieutre a farci innamorare ancora una
volta del cinema e della sua diversificata accessibilità, nelle
memorie del regista, legatissimo all’Italia in quanto per lui terra
di profonda ispirazione, si delinea la forza, tutta della settima
arte, che accresce il vento di una nostalgia singolare e al contempo
plurale, è la veduta di un’epoca dissoluta (plausibilmente gli
anni ’80) impastata nell’eroina e nei rapporti sessuali scoperti,
sebbene, per paradosso, non si veda
niente, solo riprese urbane della Capitale, lacerti anonimi, dettagli
inessenziali, eppure, sempre per paradosso, si vede molto perché si
superano i fotogrammi, si va al di là della superficie estetica per
entrare in contatto diretto con un flusso di ricordi che avvolge a
dispetto della nostra completa estraneità. Ecco la forza
sopraccitata, il potere di una proiezione che, come dice il lemma in
sé, getta qualcosa, emana, irradia.
Autofiction
sì, autofiction no Rome désolée è
uno spazio di riflessione sulla disputa tra reale e finzione, niente
di rivoluzionante ma le modalità con cui Dieutre conduce il discorso
meritano attenzione perché meno esplicite e meno immediate di altri
studi equipollenti. Il punto è che la componente “vera”
dell’opera, o almeno quella che lo sarebbe sulla carta, è
potenzialmente “finta”, ovvio che non ci è dato sapere se i
racconti della voce narrante, gli episodi e i vari amici citati siano
effettivamente dati concreti oppure no, ma anche il solo fatto di
poterne dubitare li tinge di un colore divergente dalla realtà,
parimenti tutto l’apparato visivo costituito da riprese sul campo è
alterato da infiltrazioni televisive, si tratta di rapidi e
sfarfallanti ingressi senza audio (la voce di Dieutre copre ogni cosa
creando così un effetto destabilizzante) che attestano una strana
dimensione, italica oltre che sottilmente fittizia. Il risultato,
condensato in un’ora, potrebbe avere le carte in regola per
proseguire all’infinito, grandezza a cui Rome désolée
tende senza nemmeno saperlo, ma
lo sappiamo noi, lo percepiamo, anche solo dall’ultima cartolina
sullo schermo dove un mendicante culla colui che ci si immagina essere il figlio. Souvenirs
personali dislocanti, la frontalità di una miseria romana, umana,
universale.