Putty Hill (2010),
ovvero un altro esemplare di quel cinema indipendente americano che
brancola nella propria provincia, il cosiddetto mumblecore: forse i
veri Stati Uniti sono qui, nel declino umano nascosto sotto
l’ingombrante think big, nelle storie di giovani smarriti tra gli
agglomerati urbani ai bordi dei boschi, c’è sempre una
geografia (questa volta nei dintorni di Baltimora) e ci sono spesso
anime adolescenziali allo sbando, la ricetta di Matthew Porterfield
(un occhio agli altri suoi lavori io ce lo butterei) si rifà a
codesti ingredienti e come per Falkenberg Farewell (2006),
film svedese ma tangente gli argomenti sopramenzionati, affronta il
tema dell’addio all’interno di una comunità di persone,
anzi lo fa dall’ interno in un atto di penetrazione, blitz
silenzioso e per nulla rappresentativo, più un tentativo di
assorbire la realtà senza artifici, a parte quello
dell’intervista che espliciterò sotto. Ma se il film di
Ganslandt si occupava essenzialmente di un possibile addio
reversibile (nonostante, se ricordo bene, ci sia un evento importante
ma non centrale come il suicidio di un ragazzo), quello di
Porterfield sonda il terreno dopo la tragedia. Cody, un ragazzo di
vent’anni, è morto per overdose: venite a vedere gli
strascichi del dramma, gli effetti sugli affetti, il limbo eterno di
questo bozzolo di vite.
Il metodo che Porterfield
utilizza è incursivo, il racconto è un continuo
singhiozzio di scene quotidiane che una volta riunite vanno a
costituire uno strano flusso narrativo che nella mancanza trova
essenza: la disorganicità si rivela organica, nell’unità
risiede la molteplicità perché più il regista si
inoltra nelle vite di queste persone e più gemmano dei fiori
appassiti, si tratta di storie nella storia (quella del tatuatore e
della figlia o dell’ex galeotto) che diventano elementi di un
paesaggio generale dove la vicenda di Cody non è altro che una
componente amara come le altre. Porterfield non si ferma
alla registrazione del reale, con un movimento intensificante accede alla
diegesi in prima persona contaminando il registro con delle vere e
proprie interviste ai vari personaggi. È un’azione sfrontata
che rompe l’etichetta e, almeno sul piano teorico, fa acquistare
punti al film. Su quello pratico ci sarebbe probabilmente da ridire
perché alla lunga i dialoghi diventano corpi leggermente
estranei dal resto trasformandosi in piccole forzature disseminate
lungo il girato (anche a causa di domande poste dall’invisibile
interlocutore che sviano dal macro-argomento Cody, del tipo: “cosa
ne pensi della morte?”). Comunque sia Putty Hill, al pari di
tutti gli altri film low-budget ad esso equiparabili, è una
piccola manifestazione di cinema a cui consiglierei di andare
incontro, per il tatto, per la sua dignitosa statura, per il suo
mostrarci il volto nascosto dell’America.
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