Basato su un poema del
più importante letterato polacco di sempre (così si
dice in giro), Adam Mickiewicz, The Lost Town of Switez (2010)
è un cortometraggio animato con alle spalle la produzione
della National Film Board of Canada, semplicemente la migliore casa
produttrice al mondo di animated short movie. L’esordiente
Kamil Polak si impegna parecchio a sfruttare i soldi messi a
disposizione dai canadesi riempiendo la tela con una pittura ibrida,
esatta trasposizione del film in sé: adattamento del poema
ottocentesco (e infatti abbiamo dei classici dipinti ad olio) in una
veste moderna (ed ecco la tridimensione). La condizione crasica che
si viene a formare ha un andamento sinusoidale: in certi frangenti
sembra proprio che lo Sturm und Drang si impossessi dello schermo e
che viri e che sprofondi in una altalena di colori saturanti, sia nella
maestosità delle scene di massa che nei volti dai
lineamenti vergati a china degli anziani e delle donne in bianco, ma in
altri frangenti fa capolino una strana stonatura che riguarda
essenzialmente il protagonista (3Dizzato), in poche parole i suoi
movimenti e i suoi tratti somatici (praticamente un bambolotto di The
Sims) non si amalgamano con lo scenario circostante, se l’effetto
era voluto, come a dimostrare la differenza temporale tra i
personaggi, non mi pare sia venuto bene, se è un errore, è
un errore evidente.
A parte questa impasse
estetica, magari soltanto una pignolereia del sottoscritto, Switez
potrebbe stuzzicare chi preferisce l’onirismo alla linearità,
infatti la città perduta che il titolo decanta è un
luogo fantasmatico che l’uomo vede e vive come da osservatore
partecipante (lo stagno in cui cade è dove un tempo sorgeva Switez? Mah!), e qui Polak dà sfogo alla fantasia
infilando sequenze, visioni, tagli, dalla sostanza epica, wagneriana,
una piccola rapsodia che accarezza Tolkien e che va oltre: una scena
flasha: con un movimento verticale le icone della chiesa si
smaterializzano, anzi si geometrizzano in un procedimento
inintelligibile, e l’ascensione prosegue arrivando proprio Lassù,
tra una legione di angeli e un segno divino, a sigillo di una
progressione al confine tra il kitsch e la muta ammirazione. Musiche
onnipresenti di Irina Bogdanovich.
Ah.
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