A parte l’interessante
Bestiaire (2012), che comunque come scrissi al tempo poteva in
teoria avere collegamenti con il resto del cinema di Denis Côté,
è evidente di quanto ormai questo regista canadese abbia
edificato il proprio discorso filmico utilizzando elementi
continuamente ricorsivi e Vic + Flo ont vu un ours (2013) è
la più classica delle conferme nonostante, sia chiaro, non ci
troviamo al cospetto di una classicità tout court, Côté
ha quello che dovrebbe essere definito uno “stile” altro,
l’efficacia dello sguardo laterale che si svincola, una libertà
sintattica che scuote discretamente la narrazione, e tutta una serie
di farciture ossessive, occludenti: si è sempre detto del
costante confronto nelle sue opere tra uomo e ambiente, e di ciò
non mi dilungherò oltre se non per confermarne la presenza
anche in questa pellicola presentata a Berlino, ma sull’umanità
di Côté c’è ancora da dire: sono sempre
marginali i suoi uomini, esseri periferici impegnati in una
auto-esonerazione dal mondo (la scintilla carrieristica è
esattamente così: Les états nordiques, 2005),
non una fuga, piuttosto la ricerca di un’invisibilità
redentiva, il non essere visti (cosa che accade proprio nel
bellissimo finale di Vic + Flo) è la grande
regressione, celarsi agli occhi degli altri, per la coppia lesbica
una sorta di Paradiso utopico, mentre per il regista canadese un
mantra tecnico: non mostrare ma elidere, sempre, al pari di Les lignes ennemies (2010) dove il nemico non si vede mai, anche qui
nessun orso compare sulla scena. E poi l’affrancamento dai regimi
categoriali è notevole: le tendenze di Côté si
spingono in aree di partenze che comunque ritornano, c’è
conciliabilità nelle sfumature sentimentali di Vic e Flo e gli
adombramenti thriller, altra possibile sovrapposizione con Nos vies privées (2007), e le inversioni ironiche (ma fino ad
un certo punto: quello della tragedia) provenienti da Curling
(2010).
Detto questo, ritengo Vic
+ Flo ont vu un ours il film più scialbo del regista nato
in Canada. La continuità è un dato di fatto, ciò
non mitiga certe impressioni che chi scrive ha riscontrato nei
seguenti termini: se dobbiamo parlare di “storia”, cosa negativa
perché il cinema non ha più bisogno di storie da
raccontare, è inevitabile soffermarsi su un tessuto
maggiormente articolato rispetto al minimalismo dei suoi predecessori
(non di Curling probabilmente, ma lì la questione non
pesava), il punto è che quanto offerto da Côté
sul piano narrativo non si appaia alla confezione, ritengo che
manchino dei punti cardinali nella vicenda di Vic e Flo,
semplicemente: non cattura, non dico che sappia di già visto,
è più una questione di saper gestire certi tipi di
attese, cosa strana visto che in passato Côté aveva
dimostrato di saperlo fare, e di giungere a svelamenti significanti e
penetranti (non ci sto ad una vendetta qualunque ai danni di Flo), o
di non giungere affatto da nessuna parte, che forse è il
meglio che ci si può attendere, galleggiando
nell’indeterminata apertura del non detto. Si dice troppo qua,
sempre per i codici di un’opera d’essai, sia chiaro, ma c’è
un eccesso di artificio (la cattiva è un personaggio davvero
strano, non mi pare così riuscito, nemmeno in un’ottica
surreale) che sporca il nitore dell’originarietà, e dubito
che qualcuno ami assistere ad elementi di inautenticità,
soprattutto se derivanti da uno con la fedina quasi immacolata.
Peccato.
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