mercoledì 29 agosto 2018

Däwit

In fondo Däwit (2015) fa ciò che un cortometraggio animato dovrebbe sempre fare: mettere al servizio di una storia, anche basica o perfino ingenua, l’estro creativo di chi l’ha pensata, solo così può accadere che lo spettatore non si curi affatto degli inceppamenti tramici per lasciarsi trascinare da quel famoso senso di meraviglia che fluisce nell’animazione, ed il tedesco David Jansen, aiutato dalla moglie Sophie Biesenbach, sembra assolutamente conscio di tale concezione artistica, la sua proposta, ispirata graficamente ad un libro di Frans Masereel (mai sentito nominare ma ad una superficiale occhiata non mi dispiace affatto!), si forgia in un certosino processo inventivo che lo ha visto per quasi un anno disegnare circa undicimila immagini utilizzando la tecnica xilografica, ossia l’incisione del legno, ma adattata all’odierno digitale con una specie di tavolozza computerizzata chiamata Cintiq. La resa generale è un mix di sbordature, di nervosi ghirigori che modellano di volta in volta paesaggi, figure e oggetti, anni fa avevamo visto qualcosa di assimilabile con When the Day Breaks (1999) ma Däwit, che non ha colori (e visto ciò che racconta non potrebbe averne), è un oggetto più “sporco”, il che non è da intendere negativamente, l’ombrosità trasmessa non lascia significativi spiragli di luce.

Fondamentalmente il racconto si risolve con una mitigazione dei toni scuri, insperatamente il perdono si rivela il precipitato concettuale voluto da Jansen, nulla che smuoverà la coscienza altrui sebbene sia doveroso riconoscere che la scelta di infilare il padre (di cui abbiamo visto il brutto comportamento) in una bottiglia come se fosse il modellino di un galeone o come se, più coerentemente, fosse prigioniero della sua dannazione, è una cosa bella che resta, al pari di almeno altre due subito citabili: il “sipario” che si chiude sul volto del neonato in balia delle onde diventa la palpebra della madre implorante un qualche dio affinché il figlio venga tratto in salvo (cosa che in effetti accade), ed il trip chimico con il dottore torero che apre una faglia freudiana nella memoria: il padre azzanna il cordone ombelicale, è lui che li ha divisi. La nuda descrizione, in casi del genere, è il riflesso di un’ammirazione tale da surclassare le possibili carenze degli ingredienti extra-estetici.

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