In
fondo Däwit
(2015) fa ciò che un cortometraggio animato dovrebbe sempre fare:
mettere al servizio di una storia, anche basica o perfino ingenua,
l’estro creativo di chi l’ha pensata, solo così può accadere
che lo spettatore non si curi affatto degli inceppamenti tramici per
lasciarsi trascinare da quel famoso senso di meraviglia che fluisce
nell’animazione, ed il tedesco David Jansen, aiutato dalla moglie
Sophie Biesenbach, sembra assolutamente conscio di tale concezione
artistica, la sua proposta, ispirata graficamente ad un libro di
Frans Masereel
(mai sentito nominare ma ad una superficiale occhiata non mi dispiace
affatto!), si forgia in un certosino processo inventivo che lo ha
visto per quasi un anno disegnare circa undicimila immagini
utilizzando la tecnica xilografica, ossia l’incisione del legno, ma
adattata all’odierno digitale con una specie di tavolozza
computerizzata chiamata Cintiq. La resa generale è un mix di
sbordature, di nervosi ghirigori che modellano di volta in volta
paesaggi, figure e oggetti, anni fa avevamo visto qualcosa di
assimilabile con When the Day Breaks
(1999) ma Däwit,
che non ha colori (e visto ciò che racconta non potrebbe averne), è
un oggetto più “sporco”, il che non è da intendere
negativamente, l’ombrosità trasmessa non lascia significativi
spiragli di luce.
Fondamentalmente
il racconto si risolve con una mitigazione dei toni scuri,
insperatamente il perdono si rivela il precipitato concettuale voluto
da Jansen, nulla che smuoverà la coscienza altrui sebbene sia
doveroso riconoscere che la scelta di infilare il padre (di cui
abbiamo visto il brutto comportamento) in una bottiglia come se fosse
il modellino di un galeone o come se, più coerentemente, fosse
prigioniero della sua dannazione, è una cosa bella che resta, al
pari di almeno altre due subito citabili: il “sipario”
che si chiude sul volto del neonato in balia delle onde diventa la
palpebra della madre implorante un qualche dio affinché il figlio venga
tratto in salvo (cosa che in effetti accade), ed il trip chimico con
il dottore torero che apre una faglia freudiana nella memoria: il
padre azzanna il cordone ombelicale, è lui che li ha divisi. La nuda
descrizione, in casi del genere, è il riflesso di un’ammirazione
tale da surclassare le possibili carenze degli ingredienti
extra-estetici.
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