Lutz Bassmann
2019
66thand2nd;
212 p.
Avvilito, Quantz andò col pensiero a un irritante romanzo
post-esotico che aveva letto qualche anno prima in prigione, la
storia di un viandante che non giungeva mai a destinazione e passava
la propria esistenza a vagare da un punto all’altro, integrandosi
grazie a un travestimento qua, cambiando sesso là, quindi sposandosi
con una strega, poi diventando un bandito di strada. Il romanzo, come
spesso accade in opere di questo genere, non aveva né capo né coda,
e Quantz lo aveva chiuso senza volerne conoscere la fine.
Come non spendere due parole sull’ultimo esemplare post-esotico
pubblicato da 66thand2nd nell’ottobre del 2019? Parole che non
possono che essere positive (c’era da aspettarselo visti i
precedenti) e che necessitano di una premessa: il nome campeggiante
sulla copertina è quello di Lutz Bassmann e ormai tutti gli
appassionati sanno che questo scrittore non è nient’altro che un
eteronimo di Volodine stesso, nulla di eclatante (nel progetto
volodiniano, si intende) se ricordiamo che in Italia era uscito nel
2013 Undici sogni neri, libro recante la firma di Manuela
Draeger (sebbene alle Edizioni Clichy furono un pochino più
pavidi piazzando tra parentesi il padre biologico dell’opera) e che
strutturalmente non si discostava troppo da Black Village. Ma
a prescindere dai discorsi sulla forma, su cui tornerò sotto, vorrei
richiamare la vostra attenzione sull’esplicitazione dell’eteronimia
applicata al post-esotismo di Volodine. Ovvero: concretizzando la
pubblicazione di volumi con nomi diversi dal suo, Volodine permette a
questa corrente letteraria di sbocciare e proliferare anche al di là
del proprio volere, se stiamo al gioco, ammesso che sia un gioco,
Bassmann e Draeger hanno uno stile personale che si affranca dai
lavori sottoscritti da Volodine, e quindi ecco che si attua un
processo di inveramento, reale e tangibile (così tangibile che tra
poco metterò Black Village nella mia libreria accanto ai suoi
simili per arricchire il blocco post-esotico), di un movimento sulla
carta esclusivamente finzionale, “sulla carta” in senso figurato
perché è proprio sulla carta (stampata) che i testi
post-esotici acquistano vita e presenza nel nostro mondo. Non
possiamo più nasconderci, il post-esotismo esiste per davvero.
Esiste ed ha una natura proteiforme con tutta una serie di deliziosi
canoni e codici interni, veri e propri dispositivi formali che
delineano sagome di narrazione composte nel loro nucleo da tematiche
comunque altamente accomunabili. Lo avevo già detto quando scrissi
del superbo
Sogni di Mevlidò (66thand2nd, 2019), Volodine,
in fondo, non inventa nulla, piuttosto si sta dimostrando un
formidabile re-inventore che lavora su oggetti letterari normali
applicandovi il suo inconfondibile marchio. Il discorso è ben
traslabile su
Black Village, il quale, seccando un po’
l’afflato lirico, non è niente di più e niente di meno che una
raccolta di racconti. Ora, Volodine non è nuovo a soluzioni del
genere, il già citato libro della Draeger o anche
Angeli minori
(L’orma, 2016) sono banalmente un insieme di storie poste in
sequenza. Lo scarto che li fa allontanare dall’ordinarietà è
l’etichetta che Volodine fornisce, che poi non è solo una faccenda
di superficie ma è, anche, una messa in scena di segni connotativi.
E così abbiamo avuto, ad esempio, i narrat, mentre qui dobbiamo
fronteggiare la categoria dei zaconti. L’escamotage per farci
leggere trentuno zaconti è semplice quanto bello: tre tizi vagano in
una dimensione oscura che forse è una specie di aldilà, per
misurare il tempo che passa decidono di raccontars(/c)i delle storie.
Il succo delle suddette storie è ovviamente nero e bituminoso
(aggettivo calzante che rubo dalle ultime pagine) e possiamo
ritrovare molte delle ossessioni che ci hanno accompagnato in questi
anni di avventure post-esotiche. Il sottoscritto, pur ammettendo una
certa ripetizione, di Volodine non ne ha mai abbastanza per cui ben
vengano questi surreali spaccati di estrema desolazione da leggere
tutti d’un fiato. È chiaro che come sempre accade in una raccolta
non tutti i testi hanno la medesima presa, però mi sento di dire che
si può rimanere soddisfatti anche perché sussiste l’eventualità di un dialogo tra
i zaconti stessi, si noti che il numero 4 ed il numero 32 sono l’uno la
continuazione dell’altro ma è possibile che mi siano sfuggiti
ulteriori collegamenti. Il confronto poi esce dal libro stesso
citando ulteriori riferimenti dell’opus magnum post-esotico,
nuovamente: ho il sentore di essermi perso degli agganci ma di sicuro
ho beccato il rimando all’elefantessa immortale di
Undici sogni
neri.
Ho lasciato alla fine un ragionamento sulla peculiarità principe del
zaconto. Per farlo mi riallaccio al concetto del Volodine
re-inventore perché qui abbiamo delle storie che non hanno una
conclusione, o meglio, una conclusione ce l’hanno ma è
letteralmente mozzata in modo che non vi sia uno scioglimento delle
premesse fatte. È una trovata che non può considerarsi
rivoluzionaria, personalmente mi sono sovvenuti almeno altri due
episodi di troncatura del finale nel panorama letterario recente e
non, lo ha fatto Wallace ne La scopa del sistema e, andando
ancora più indietro, lo ha fatto anche Kafka che si è divertito con
Il castello a lasciarci con un palmo di naso arrivati
all’ultima pagina. I paragoni non sono forse troppo calzanti perché
la scelta di Volodine è sistemica, le sue narrazioni possiedono una
cifra quasi provocatoria laddove le linee di costruzione non hanno
necessità di canalizzarsi in un preciso compimento, sono addizioni
di numeri estranei a cui riusciamo a dare un valore impreciso, potrei
dire che i finali saremmo in grado di scriverli noi lettori con la
nostra immaginazione rinvigorendo la connessione instaurata col
libro, ma non ne sono troppo convinto, del resto
[nota
a margine di Black
Village in
quanto prodotto acquistabile in libreria o dove vi vien più comodo:
questo autunno è, ed è stato, dal punto di vista delle uscite
editoriali semplicemente clamoroso per i miei gusti di lettore. In
pratica le cose sono andate così: a settembre minimum fax ha
ristampato Storie
della farfalla di
Vollmann (bello, più bello nelle ultime trenta/quaranta pagine), poi
a ottobre è arrivato il qui presente Volodine insieme alla favoletta
illustrata Volpe
8 di George Saunders e a Il ritorno
del barone Wenckheim per Bompiani, a conti fatti il primo vero
Krasznahorkai letterario non trasposto in alcuna pellicola di Tarr.
Infine il 7 novembre sempre 66thand2nd
ha riemesso nel mercato italiano Casa
di foglie di
Mark Z. Danielewski dopo che la prima edizione Mondadori era da tempo
fuori catalogo e si trovava solo su eBay a cifre irragionevoli.
Quindi, cari ragazzi, io nei prossimi mesi avrò il comodino piuttosto
occupato, spero che voi facciate altrettanto]