giovedì 4 luglio 2019

Cielo senza terra

Per la biografia di Giovanni Davide Maderna si rimanda a quella scritta sul sito ufficiale della Quarto Film, la casa di produzione da lui fondata (link), di seguito una sintesi: milanese classe ’73 comincia a girare in 16mm già a ventitré anni fino al debutto veneziano con Questo è il giardino (1999) a cui seguiranno altri due lungometraggi (L’amore imperfetto [2002] e Schopenhauer [2006]), apripista nel 2007 per la fondazione della succitata Quarto Film, uno spazio artistico che nel tempo ha accolto e finanziato il cinema di autori fuori dalle politiche distributive come Giovanni Cioni, Mauro Santini e Tonino De Bernardi. Cielo senza terra (2010) è il primo film di Maderna a rientrare nella propria scuderia e si presenta come un oggetto a cui non siamo così abituati, la situazione è semplice: un padre, lo stesso regista, ed il figlio Eugenio di otto anni partono per una lunga escursione in montagna e ripresi dalla co-regista Sara Pozzoli si abbandonano ad un dialogo che davanti alla camera si fa leggero e profondo, adulto, nonostante ci sia un bambino come interlocutore, ed anche infantile, nonostante ci sia un uomo come compagno di viaggio, perché è evidente che questo atipico documentario è uno di quei viaggi che appaiano il tragitto geografico (siamo sulla Grigna, provincia di Lecco) ad un percorso strettamente umano, faticoso eppure appagante tanto quanto le camminate lungo i pendii montani.

È un mettersi a nudo con naturalezza quello di Maderna, è un percorso di reminescenze e di lunghi cerchi temporali che tornano e ritornano. Alla base del film c’è il rapporto padre-figlio e non si tratta solo della coppia che vediamo sullo schermo, Giovanni è genitore ma anche figlio che guarda al passato (rimembra con meraviglia che le gite con il papà sembrava durassero mesi quando invece si trattava di pochi giorni) ed Eugenio, seppur un bimbo, guarda inconsapevolmente al futuro, al padre che sarà e che a sua volta lascerà quella maglietta al proprio primogenito (e intanto segue senza saperlo le orme paterne, imbraccia un fucile e spara, che in inglese è il verbo d’azione per ogni filmmaker). Nell’intimo laccio trasmesso attraverso le frequenze del reale c’è spazio per una gamma di riflessioni che toccano perché cogitate da un ottenne la cui innocenza è coniugata ad una nettezza di pensiero senza sovrastrutture, sicché religione e cosmogonia, amore e morte fluiscono via nella conversazione tra questi due esseri umani sulla strada della vita, e Maderna dimostra qui di essere un buon genitore poiché sa porsi sullo stesso piano del piccolo trattandolo come un coetaneo e non come un marmocchio da spizzicottare.

Ma Cielo senza terra non si esaurisce affatto in quanto appena detto, facendo fede al suo animo sperimentatore il regista rende il film squisitamente attuale squadernando una verità del fare cinema di adesso: che non ci devono essere sbarramenti, limiti, confini, i generi sono in grado di fondersi, la pluralità forma una grande singolarità a cui tutto può ricondursi, e allora succede che l’opera si faccia invadere da eventi a lei coevi, slegati, assolutamente slegati come la protesta degli operai dell’INNSE o le riflessioni di Gianni Grandis, produttore musicale toscano che racconta via radio gli anni d’oro della sua carriera. Laddove non si individua un logico legame con la traccia principale ecco che sollevandoci più in alto e osservando Cielo senza terra da altra angolazione si palesa la peculiare apertura che lo caratterizza, un dispositivo a cui si può accedere attraverso molteplici porte e la cui libertà visiva ci rende spettatori un po’ migliori di quello che eravamo.

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