Per la biografia di
Giovanni Davide Maderna si rimanda a quella scritta sul sito
ufficiale della Quarto Film, la casa di produzione da lui fondata
(link), di seguito una sintesi: milanese classe ’73 comincia a
girare in 16mm già a ventitré anni fino al debutto veneziano con
Questo è il giardino (1999) a cui seguiranno altri due
lungometraggi (L’amore imperfetto [2002] e Schopenhauer [2006]), apripista nel 2007 per la fondazione della succitata Quarto
Film, uno spazio artistico che nel tempo ha accolto e finanziato il cinema di autori fuori
dalle politiche distributive come Giovanni Cioni, Mauro Santini e
Tonino De Bernardi. Cielo senza terra (2010) è il primo film
di Maderna a rientrare nella propria scuderia e si presenta come un
oggetto a cui non siamo così abituati, la situazione è semplice: un
padre, lo stesso regista, ed il figlio Eugenio di otto anni partono
per una lunga escursione in montagna e ripresi dalla co-regista Sara
Pozzoli si abbandonano ad un dialogo che davanti alla camera si fa
leggero e profondo, adulto, nonostante ci sia un bambino come
interlocutore, ed anche infantile, nonostante ci sia un uomo come
compagno di viaggio, perché è evidente che questo atipico
documentario è uno di quei viaggi che appaiano il tragitto
geografico (siamo sulla Grigna, provincia di Lecco) ad un percorso
strettamente umano, faticoso eppure appagante tanto quanto le
camminate lungo i pendii montani.
È un mettersi a nudo con
naturalezza quello di Maderna, è un percorso di reminescenze e di
lunghi cerchi temporali che tornano e ritornano. Alla base del film
c’è il rapporto padre-figlio e non si tratta solo della coppia che
vediamo sullo schermo, Giovanni è genitore ma anche figlio che
guarda al passato (rimembra con meraviglia che le gite con il papà sembrava durassero mesi quando invece si trattava di
pochi giorni) ed Eugenio, seppur un bimbo, guarda inconsapevolmente
al futuro, al padre che sarà e che a sua volta lascerà quella
maglietta al proprio primogenito (e intanto segue senza saperlo le
orme paterne, imbraccia un fucile e spara, che in inglese è
il verbo d’azione per ogni filmmaker). Nell’intimo laccio
trasmesso attraverso le frequenze del reale c’è spazio per una
gamma di riflessioni che toccano perché cogitate da un ottenne la
cui innocenza è coniugata ad una nettezza di pensiero senza
sovrastrutture, sicché religione e cosmogonia, amore e morte
fluiscono via nella conversazione tra questi due esseri umani sulla
strada della vita, e Maderna dimostra qui di essere un buon genitore
poiché sa porsi sullo stesso piano del piccolo trattandolo come un
coetaneo e non come un marmocchio da spizzicottare.
Ma Cielo senza terra
non si esaurisce affatto in quanto appena detto, facendo fede al suo
animo sperimentatore il regista rende il film squisitamente attuale
squadernando una verità del fare cinema di adesso: che non ci devono
essere sbarramenti, limiti, confini, i generi sono in grado di fondersi, la
pluralità forma una grande singolarità a cui tutto può ricondursi, e
allora succede che l’opera si faccia invadere da eventi a lei
coevi, slegati, assolutamente slegati come la protesta degli operai
dell’INNSE o le riflessioni di Gianni Grandis, produttore
musicale toscano che racconta via radio gli anni d’oro della sua
carriera. Laddove non si individua un logico legame con la traccia
principale ecco che sollevandoci più in alto e osservando Cielo
senza terra da altra angolazione si palesa la peculiare apertura
che lo caratterizza, un dispositivo a cui si può accedere attraverso
molteplici porte e la cui libertà visiva ci rende spettatori un po’ migliori di quello che eravamo.
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