sabato 31 dicembre 2022
La mia condanna lo sai, è andare oltre
domenica 25 dicembre 2022
Per Ulisse
E mentre lo guardavo ragionavo sulla capacità che ha il cinema di trasmettere informazioni pur non avvalendosi di uno storytelling che illustra dalla A alla Z. Se ci pensiamo gli uomini e le donne che appaiono e scompaiono dal film non dicono granché sul proprio conto, certo, qualcuno si apre di più, qualcun altro di meno, ma per la maggior parte apprendiamo solo dei flash, che sebbene dolorosi e tragici restano i tasselli di un mosaico ulteriore che non vediamo né sentiamo ma che comunque aleggia, che si percepisce in una dimensione altra rispetto al racconto. L’alchimia creata da Cioni, non raffinata (ad un certo punto nell’inquadratura ci finisce un microfono che non doveva stare lì) e nemmeno autorialmente oltranzista, risulta una manifestazione di settima arte talmente genuina e al contempo professionale che trasporta lo spettatore in uno di quei stati fruitivi che sanno uscire dalla proiezione in sé, e grazie a ciò la sofferenza delle persone in video la si legge anche nei loro occhi, spenti, rassegnati, pimpanti, nervosi, o la si sente nelle loro voci, impastate fino all’incomprensibile, o in accenti che ne amalgamano indistinguibilmente altri, e la si vede nelle assenze, di denti, di un futuro a lungo a termine. Che poi non è di sicuro la prima volta che il cinema va ad occuparsi degli ultimi (ad esempio, il finale liberatorio con il bagno in mare, mi ha riportato alla conclusione di Nessun Fuoco Nessun Luogo [2014] altra opera dedicata a degli invisibili), è che quando lo fa, e quando lo fa bene, sembra ancora che ci sia la possibilità di credere in un valore meraviglioso, quello dell’umanità.
mercoledì 21 dicembre 2022
The Mad Half Hour
giovedì 8 dicembre 2022
21 X New York
Con un minutaggio così ridotto Stasik non riesce a soffermarsi granché sui personaggi che vuole raccontarci, questi tizi entrano ed escono dallo schermo con la medesima rapidità di uno sguardo che si dà ad uno sconosciuto seduto di fronte a te sulla metro, e se ciò era voluto l’effetto sortito non si può dire che abbia centrato il bersaglio perché come si diceva prima cogliere l’infinita complessità delle emozioni è pressoché impensabile, al contempo traspare una sincerità di fondo a cui non me la sento di voltare le spalle, no perché anche se in linea generale il precipitato del film era pronosticabile, ovvero che, seppur residenti in una delle città più popolose del pianeta, i suoi abitanti si sentono parecchio, ma parecchio, soli e perciò tentano di mitigare la solitudine con futili espedienti, nonostante la suddetta sintesi tematica, sfiorare la mestizia di ’sta gente non è poi così male forse perché “’sta gente” siamo anche noi, e allora dal ragazzino che si aggira a Coney Island cercando di rimorchiare qualche coetanea all’uomo di mezz’età che si è invaghito di un nerboruto spogliarellista passando per altre micro-storie ordinarie fatte della stessa materia di cui è fatta la vita, ci si può anche dimostrare accoglienti e prenderle nella loro effimera e sfuggente essenza. In aggiunta Stasik si lancia in qualche accento tecnico fatto di sfocamenti, inquadrature sporche e variegate che certificano le intenzioni di andare un pelo al di là del banale orticello, se molto manca in 21 x Nowy Jork, qualcosa, di contro, c’è.
domenica 4 dicembre 2022
Nei miei sogni tu mi hai già salvato
Di tutti i posti dove potevamo andare, uno era il nostro preferito e si trovava in Zürafa Sokak, una strada tutta in salita costeggiata da negozietti di souvenir. Nell’indifferenza generale, in cima, un cancello arrugginito reclamava attenzione, sopra qualcuno aveva scritto “whorehouse”, un uomo, a turno, controllava gli accessi aprendo e chiudendo una porticina, di qua un mondo, di là un altro. Oltre era tutto in sfacelo, il Governo regolamentava la prostituzione così: ghettizzando un’area ridotta quasi in macerie, così come erano decrepite le donne che ci lavoravano, maschere dipinte sotto solchi rugosi e corpi decisamente inadatti a vendersi. Noi guardavamo dalle finestre, spiavamo quell’affanno tipicamente umano, tipicamente maschile, pieno di sbuffi e gridolini: erano così goffi, tutti glabri e con quel pendulo carnoso tra le gambe (sono stato anche una prostituta in una vita passata, a Pattaya, iniziai poco dopo lo tsunami del 2004, avevo sedici o diciassette anni, gli stranieri che arrivavano erano ricchi e mi compravano abiti e scarpe che i miei genitori non avrebbero mai e poi mai potuto regalarmi. Scopare non era un problema, quando mai lo è stato del resto? I baht che mi infilavo in tasca il mattino dopo mi rendevano felice, mangiavo succosi durian e fumavo almeno un pacchetto di sigarette al giorno. Un tizio inglese ad un certo punto si innamorò di me, era vecchio ma gentile, per almeno due o tre anni ritornò puntuale al termine della stagione delle piogge, alla fine stavamo insieme senza fare niente, senza neanche toccarci, mi diceva che nel mio sorriso rivedeva qualcosa di sua moglie morta tempo prima, poi un giorno mi chiese di seguirlo a Londra, accettai, la mia idea era di rimanere giusto qualche mese e invece restai lì per otto anni fino a quando una notte se ne andò via nel sonno. Rientrai in Thailandia e vidi mamma e papà invecchiati come se di anni ne fossero passati cinquanta, li abbracciai forte e in quel momento capii molte cose, tutte molto intense e profonde, aprii una piccola agenzia di viaggi con i soldi che mi aveva lasciato, poi conobbi un altro uomo con il quale feci una bambina, la chiamai Elizabeth, crebbe così velocemente che quasi non me ne accorsi, ripensai ancora a lui, sempre meno però perché i ricordi sbiadiscono e non possiamo farci proprio niente, morii nel 2047 per un tumore ai polmoni, troppe sigarette forse, ma tutto sommato devo dire che quella fu una bella vita), alcuni insistevano sul fatto di poter sfilare via il preservativo, un supplemento rappresentava allora il migliore compromesso, qualcuno si presentava lì vergine, qualcun altro sfruttava l’occasione di essere andato a comprare il pane che in effetti sbucava poi dai sacchetti, ogni orgasmo che si propagava tra le mura scrostate e che arrivava alla cartilagine delle nostre orecchie ci faceva molto ridere, e quindi miagolavamo assai rischiando di beccarci qualche scarpa lanciata in direzione della finestra da dove ci godevamo lo show. Ricordo i bagni e le piastrelle dalle maioliche zozze, i lavandini sbeccati e la puzza di chiuso che forse si poteva trovare soltanto in museo d’arte ottomana, purtroppo non ricordo molto altro ora se non che a volte andavamo a strusciarci tra le sporgenti vene varicose delle donne e che qualcuna di loro ci dava anche qualcosa da mangiare.
Nella nostra lingua gattesca lo chiamavamo “the game” perché anche da non-umani gli inglesismi mantenevano un certo fascino, e quindi sì, il gioco, che però poteva diventare molto pericoloso: ogni tanto qualcuno moriva per via delle pedate dei pescatori. Succedeva di notte perché di notte, si sa, succedono le cose davvero importanti. In gruppo, compatti e silenziosi, partivamo dalla zona dove attraccavano i battelli turistici e leggeri come il vento salivamo le scale del ponte Galata che portavano sulla strada carrabile. Qui si manifestava di fronte a noi uno spettacolo inusuale, decine e decine di uomini facevano dondolare le loro canne da pesca sulla balaustra del ponte, viste da sotto quelle cannule lenzate penso che sarebbero potute sembrare delle zampe di enormi mantidi che nel buio si infilavano sottili nell’acqua per poi riuscire e rientrare, così, in un movimento ipnotico e sensuale che però ci interessava fino ad un certo punto, del resto, a noi, interessavano i pesci. Li stipavano dentro a secchi di dubbia igiene oppure dentro a cassette di polistirolo che posizionavano affianco al loro sgabello dove si sedevano per fumare o bere o entrambe le cose fino al sorgere del sole. La tattica quindi era fin semplice (in una vita successiva, lontana, ma non troppo da questa, sarò un profugo climatico. Partirò da Malaga, ormai assorbita da un processo di desertificazione che ingloberà buona parte dell’Italia e della Spagna meridionali, insieme a mia figlia a bordo di una vecchia Seat rubata ad un concessionario di auto usate. Saprò fin dall’inizio che il viaggio, al pari di tutti i viaggi clandestini, sarà disperato, Helsinki rimarrà un punto sulla cartina distante oltre quattromila chilometri, ma io, in qualità di padre, esattamente come tutti gli altri padri che prima di me hanno provato di tutto per ridare un colore alle labbra dei propri figli, tenterò l’impossibile. Arriveremo in Costa Brava poco dopo il tramonto, lungo il tragitto altri profughi provenienti da sud accampati sulle spiagge, bambini disidratati che sbucano fuori dai tombini in cerca di acqua, Barcellona militarizzata, Lloret de Mar un parco giochi abbandonato, oltre il confine, forse a Perpignano, una stella cadente lacererà la volta notturna, ci perderemo dalle parti di Lione, senza viveri, in una Europa già immersa nel gelido inverno, chiederemo aiuto casa per casa, fino a quando una vecchietta ci darà da mangiare e ci ospiterà per una notte nel suo garage, solo una notte s’il vous plaît, non voglio problemi con la polizia dirà. Mia figlia inizierà a stare male, dissenteria, febbre, vomito, cercherò una farmacia a Colmar, una cittadina incantevole in cui sognerò di ritornare in futuro con più calma, nessun medico accetterà di vendermi alcunché in quanto sarò privo di assicurazione sanitaria, a Strasburgo entrerò in un ospedale con la mia bimba in braccio, esanime, vedrò i volti di queste persone consapevoli ma ignare di quello che era il mondo non troppo lontano da loro e che adesso si incarnerà in me, in noi, lì davanti, incrostati e chiazzati dalla malattia, sporchi e puzzolenti, straccioni, help me please, dirò solo questo, stravolto, poi sarà il buio e ancora poi una stanza bianca, una flebo, disorientamento, un’infermiera affaccendata nei suoi lavori si renderà conto del mio risveglio, chiamerà un medico che con toni gentili e l’alito profumato si chinerà su di me e con un filo di voce mi dirà in uno spagnolo elementare che purtroppo mia figlia non ce l’ha fatta. Vivrò ancora per qualche anno girovagando per la Germania, diventerò un senzatetto, un paria, morirò a Colonia accoltellato da un gruppetto di giovani neonazisti che mentre infilzeranno ripetutamente il mio addome intoneranno il canto di Horst Wessel), dovevamo aspettare, sornioni come solo noi potevamo essere, rannicchiati sul marciapiedi fingendo totale noncuranza verso il mondo intero, e poi, appena uno dei pescatori si distraeva quel tanto che bastava, partivamo all’attacco: eravamo rapidi e quasi invisibili, saette di pelo che si lanciavano con tutto loro stessi verso la preda, mentre loro, gli umani, imprecavano fino alla quarta generazione la stirpe dei felini, certo, come dicevo, poteva capitare che qualcuno non fosse abbastanza rapido, ma chi ce la faceva, chi vinceva il gioco, scappava via con questi pesciolini che stretti tra le nostre fauci diventavano pesci volanti grazie alle vibrisse che ci davano un tono da pirati all’assalto, e tutti insieme, una volta al sicuro, ci acquattavamo a terra per sbranarci il nostro bottino, quella carne fresca e bagnata, bianca, salata, era una sensazione purissima e quasi orgasmica, alle spalle avevamo una moschea illuminata dai primi raggi del mattino che le donavano una solennità a cui neanche noi potevamo sottrarci, dal minareto si alzava un canto fatto di colla e di anelli, ce ne stavamo allora stretti stretti, una cartolina sacra e pagana, un presepe di mici, mentre Istanbul si risvegliava incuneata come da millenni tra l’Europa e l’Asia.
Non ci fidavamo dei cani, ce lo aveva insegnato la mamma fin da piccoli, ma di lui, di quel vecchio spinone che lercio vagabondava tra i vicoli nei pressi di İstiklal Caddesi, be’, diciamo che ci piacevano le storie che raccontava e un giorno disse così: ma come? Non avete mai visto la Porta sul Bosforo? Così mi deludete molto cari amici. Focus group urgente: in cerchio a decidere il da farsi, tempo cinque minuti e si decise di partire seduta stante per questo posto che pareva si chiamasse Palazzo di Dolmabahçe. Quando ci spostavamo in gruppo eravamo invincibili, un contingente peloso che si muoveva ai margini del caos, in mezzo alle tonnare di turisti che si facevano abbindolare dai ristoratori locali, oltre le nuvole di fumo dei narghilè, incontrando altri gatti con i quali ci scambiavamo qualche soffio giusto per far capire chi eravamo, la vita, per noi, era questa: respirare con i nostri piccoli polmoni particelle di un’esistenza gigantesca, incomprensibile, abbacinante. Però, dovetti ammettere, che questo Palazzo in fondo non era granché. Specchi, tappeti, mobili, vasi, quadri, perché alle persone piaceva questa roba? Un po’ delusi uscimmo fuori, qualcuno faceva le fusa sperando di essere ripagato con del cibo, qualcun altro si riposava nelle aiuole del grande giardino, io mi avvicinai a quel cancello che, vista la quantità di gente che c’era intorno a farsi le foto, doveva essere parecchio importante, e in effetti, appena riuscii a inquadrare bene la situazione, quella porta, quell’immagine, aveva tutta una serie di suoi perché, il mare azzurro oltre le inferriate ti faceva sentire anche a te un po’ azzurro (sono, in questo istante che dura millenni, un essere che voi terrestri chiamereste alieno, per il vostro sistema di misurazione arrivo da lontanissimo, ma in realtà è come se fossimo vicini di casa, non ho un corpo così come lo intendete voi, ne ho centinaia, il mio sistema biologico risponde a reazioni chimiche che voi non conoscete, la mia stirpe è inserita in un processo di evoluzione avanti miliardi di secoli rispetto a quello umano, noi abbiamo lasciato indietro la scienza in favore dello spirito, abbiamo sconfitto il dolore, la rabbia, la sofferenza, l’odio, abbiamo eliminato i dogmi delle società organizzate, non c’è più potere, denaro, classi, ricchezza o povertà, eppure, per ragioni che nemmeno noi siamo ancora riusciti a comprendere, facciamo tutti parte di un unico, inimmaginabile, disegno, ogni essere dell’universo che si può definire tale risponde, anche inconsapevolmente, ad una legge superiore che in qualche modo ci affratella, ed è per questo che sono venuto qua, che sono arrivato sul vostro pianeta per far sì che io possa capire meglio voi e voi me, che poi siamo la stessa cosa, la stessa scintilla che brucia come un fiammifero nelle profondità siderali dello spazio. Ora che mi avete rinchiuso in questa base militare a decine e decine di metri sotto terra, so che mi ucciderete, non ve ne faccio una colpa, siete ancora legati a schemi mentali involutivi e reazionari, ciò che importa è che voi sappiate che non siete, che non siamo soli, che il cammino è al di là di ogni calcolo matematico lungo e complicato, abbiate fede e fiducia, io tornerò, o magari no, magari finalmente dopo questa vita sarò libero e diventerò pura e inesprimibile luce), e anche un po’ felice ma quella felicità intrisa di malinconia, non so, pensieri troppo complessi per un semplice gatto, era meglio tornare indietro che perdere tempo in simili elucubrazioni, se non fosse che, che poi accadde, e accadde forse per una mia distrazione o forse perché, banalmente, doveva accadere, fatto è che attraversando la strada un taxi mi investì spiattellandomi sull’asfalto, già, le zampe posteriori, straaaak, tranciate di netto, budella, feci, sangue e organi che non sapevo nemmeno di avere dentro di me. Sì, quell’istante fu molto doloroso, ma così come le nascite anche le morti si assomigliano un po’ tutte, che siano improvvise o meno. In quel momento, per un secondo veramente impercettibile, puoi fare un bilancio della tua esistenza, spoiler: c’è sempre molta nostalgia alla fine. Ma quella volta successe qualcosa di diverso. Dall’altra parte della strada vidi una bambina staccarsi dalla mano della mamma e correre in mezzo alla carreggiata dribblando motorini e facendo inchiodare le automobili, con la vista già appannata notai appena appena che la bimba si stava chinando su di me, di certo non l’avevo mai vista prima e a lei non importò nulla della pozza di ghiandole e frattaglie che mi circondava, si inginocchiò sulle viscere assediata dal frastuono dei clacson, mi prese la testa e iniziò ad accarezzarla con un’innocenza che non conoscevo, e così, poco prima che la mia anima venisse proiettata in un altrove per incarnarsi in un altro corpo e ricominciare daccapo una nuova vita, capii che tutto quanto ricerchiamo fin dall’inizio, ma proprio dal primo vagito o gnaulio o guaito, quale che sia il tempo, lo spazio o la dimensione, ha una sola ed unica verità, e che questa verità si trova nell’amore.
lunedì 28 novembre 2022
One of Us
Premesso che per affrontare la vastità di un movimento religioso strettamente collegato ad eventi storici ci vorrebbe una preparazione che di sicuro non si può trovare in un documentario, io continuo a tenere vivo lo spazio virtuale che state leggendo non per fare una piatta descrizione degli argomenti trattati da un film (cosa avvenuta nel paragrafetto sopra), ma per segnalare dei film che, come ha detto Vanni Santoni riferendosi a dei testi letterari indispensabili per chi ha in testa di fare lo scrittore, “hanno strappato territori nuovi all’inesistente”. Un tempo, il tempo di Jesus Camp ad esempio, non mi importava troppo della grammatica e della sintassi nel cinema, non ci pensavo, ero abbindolato dal racconto in superficie, poi, affinando lo sguardo, l’azione di potatura dell’inessenziale ha fatto sì che il metodo divenisse il centro delle mie attenzioni. E quindi che dire di One of Us che è un prodotto targato Netflix e che quindi ha una composizione settata per essere accessibile dal vasto pubblico? Nulla, è ordinaria amministrazione, è confezione uguale ad infinite altre, non vi è ricerca strutturale né l’impiego di soluzioni che possano far uscire l’opera dalla consuetudine. Non voglio passare per un cine-talebano (o un cine-chassida giacché siam qua) perché di bellezza ce ne può essere anche in oggetti che non per forza se ne stanno in frontiera, e infatti One of Us non lo giudicherei brutto, solo che non è molto e neanche abbastanza, è giusto uno step oltre il medio intrattenimento.
lunedì 21 novembre 2022
Absurdo žmonės
Cosa ho gradito meno, ma che comunque non rappresenta un male incurabile vista l’inesperienza del regista, è il voler affidarsi alla scrittura per provocare uno shock spettatoriale. L’elemento esploitativo si configura in un episodio di necrofilia, sicuramente un’immagine forte e d’impatto, però non necessaria. Fino a quel momento le cose erano andate benone perché il corto, senza fornire alcuna informazione, aveva operato nell’area della suggestione: l’atmosfera da inverno nucleare, la neve-fuliggine, i muri scrostati, il continuo tremore del tizio, il cadavere inscaccato, erano ingredienti che permettevano ad Absurdo žmonės di essere un ottimo diffusore di ansia, ma si è voluta sovraccaricare la situazione con un trauma diretto e frontale, peccato, ciò non toglie che si è acceso un interesse verso Matulevičius e se sarà possibile sono convinto che tornerà nuovamente a farci visita.
domenica 16 ottobre 2022
Arkadia haire
La forma di Arkadia haire si offre per mezzo di un’articolazione così strutturata: un paio di brevi interviste alle persone incontrate sul tragitto, molte sequenze naturalistiche che però non mi spingono a parlare di contemplazione, digressioni documentate con dettaglio dei ritrovamenti sul campo. Nel globale parliamo di un lavoro che non si adagia totalmente al concetto di ordinarietà perché in lui ribolle una mistura di liricità ed esplorazione empirica che si scuote dalla routine del settore, però al contempo non si fa un passo al di là del consueto. Escludendo due rapidi flash inaspettati che non avranno seguito, mi riferisco agli improvvisi paralleli visivi con Lo specchio (1975) di Tarkovskij e il celebre dipinto Ragazza col turbante di Johannes Vermeer, il metodo di Koutsaftis si presenta a noi vedibile ma sorpassato, e a riprova di un’idea non troppo moderna c’è, secondo me, un inopportuno perché onnipresente commento in prima persona effettuato dal regista stesso che copre ogni minuto del girato, un flusso di pensieri, descrizioni e nozioni che ho trovato soffocante, se inoltre aggiungiamo espedienti quali i ralenti (arghh!) o delle sottolineature musicali, l’opera non riesce ad ingranare una marcia capace di farle prendere velocità, ed è un peccato perché ha gli argomenti giusti per risultare interessante, diciamo che è un “problema” di come e non di cosa. Una visione, ad ogni modo, non significherebbe buttare al vento il proprio prezioso tempo, in giro si incrocia di molto peggio.
mercoledì 14 settembre 2022
Ascent
Ascent elabora o comunque tratta in maniera malinconica una materia abissale come il lutto, però la portata a disposizione dello spettatore non si esaurisce nel legame tra lui e lei, in realtà c’è un lato che potremmo definire alla lontana documentaristico dove viene compiuto un vero e proprio excursus sul Giappone ponendo il monte Fuji al centro di ogni dissertazione, quindi, oltre ad essere visivamente il nodo della pellicola, il rilievo è anche la stella concettuale che attrae a sé una gamma di esplorazioni dal carattere storico: folklore tradizionale, storia della fotografia, storia contemporanea (pensate: durante l’occupazione americana nei film nipponici il monte Fuji veniva oscurato perché ritenuto un simbolo troppo patriottico), è chiaro, per noi esterni, che l’importanza di questa cima non sia soltanto orografica, c’è una grana spirituale, un catalizzatore di energie, un Olimpo non Mediterraneo, insomma, il peso semantico che Fiona Tan dona al monte Fuji è di molto superiore a quello che gli si potrebbe dare guardando distrattamente la cartina. Nell’idea di una trascendenza terrena si potrebbe quasi interpretare la salita verso la vetta di Hiroshi come un’ascesa diretta ad una dimensione più alta: a un aldilà. Capirete allora di quali potenziali e perlustrabili aperture è fornito Ascent, un elegante oggetto che si rende cinema pur non avendone gli abituali connotati, che sa percorrere con poesia un’arteria sentimentale collocata nel sistema circolatorio di un Paese tra l’ieri e l’oggi, che fa riverberare echi di fragile umanità in un orizzonte enorme e indescrivibile. Promosso.
domenica 28 agosto 2022
Cuba Libre
Siamo così certi che Cuba Libre sia un’anomalia per Serra? Forse apparirò un po’ limitato nel mio vicolo interpretativo perché userò la stessa chiave di lettura adottata per El Senyor ha fet en mi meravelles (2011), però sotto sotto mi pare che il buon Albert mantenga un’alta coerenza nei suoi manufatti artistici, una strategia, una tattica votata sempre e comunque ad un unico punto, quello di sfatare una mitologia. Ok, non saremo nella tronfiezza funebre di The Death of Louis XIV (2016) o nell’asettica geometria di Roi Soleil (2018), ma un nuovo atto di affettuosa lesa maestà si compie laddove il mito in questione non è altro che Fassbinder. Ri-ok, come detto non conosco Fass per cui non risulto particolarmente credibile, tuttavia ho riscontrato una messa in scena tipicamente serriana dove una velata farsa è sempre dietro l’angolo, è la sua capacità di mettere soggetti improbabili nei panni di giganti (il discorso non vale per Jean-Pierre Léaud), per farli razzolare dentro la sacralità, la letteratura, la Storia. O il cinema. Non è un caso allora se i personaggi presenti nel bar siano fedelissimi di Serra, Lluís Carbó (il Don Chisciotte di Honour of the Knights, 2006), Xavier Gratacós e l’onnipresente controfigura Lluís Serrat, per celebrare la settima arte di Fassbinder Serra la scompone con i suoi ferri del mestiere. Ordinaria amministrazione concettuale.
martedì 9 agosto 2022
A Separation
Da A Separation era difficile aspettarsi qualcosa che andasse oltre il delineamento della situazione critica con annessi, brevi, approfondimenti emotivo-esistenziali, eppure, se aggrada, alla fine Karin Ekberg propone anche una sorta di piccola morale che chiude la faccenda. Le morali, checché se ne dica, fanno cagare perché evocano tratti parabolici da catechismo, però se il messaggio arriva da un oggettino pregno di intimità e di umiltà, allora l’indotta sentenza irrita di meno. La postilla in sostanza è che: anche se è andato tutto a rotoli, anche se quando chiudi gli occhi prima di addormentarti ti passa davanti una vita intera passata con lei, anche se alla fine ad addormentarti non ci riesci proprio e ti rigiri in un letto singolo che dopo anni e anni di letto matrimoniale ti sembra microscopico, ecco, anche se il destino ha preso una piega del genere, non ti disperare troppo perché ciò che appare sotto le vesti di una spaventosa fine può essere in realtà un meraviglioso nuovo inizio. Con una ellissi temporale che spariglia il mood abbacchiato aleggiante, due spazzolini dentro al porta-suddetti segnano la svolta: chi non aveva speranze le ha magicamente riacquistate in un altro cuore perché l’essere umano è un bel tipo, si strugge, si danna fino a logorarsi, e poi basta un niente per farlo risorgere (con l’ovvio rischio di ricadere in disgrazia, ma all’inizio non ci si pensa per nulla), sicché: che la festa cominci! sembrano dire le ultime immagini le quali, girate non da una che passava di lì per caso, assumono un’increspatura di serenità nell’animo di Karin, un immaginabile dolce arrivederci che è possibile intuire: se loro sono felici, allora lo sono anche io.
venerdì 29 luglio 2022
Desierto en tu mente
L’aspetto di Desierto en tu mente si poggia su un girato in Super 8 che balla tra due estremi: il muto e l’avanguardia. La Grimalt osa parecchio e tempesta il flusso filmico di gingilli e accorgimenti da epilessia (c’è ad esempio una “cosa” ancorata sulla sinistra dello schermo che lampeggerà per l’intera durata della proiezione), strambi quadrati con all’interno altre immagini si sovrappongono all’immagine-madre, scenette nonsense segnano il cammino della giovane occhialuta (una è commentata da un’assurda intervista con voci modificate ad un tipo di nome Cocoliso che a quanto pare è la versione ispanica di Pisellino, il figlio di Braccio di Ferro), ingressi musicali a dir poco stridenti erompono furibondi. Io, al cospetto di siffatto scompiglio, dico che comunque la pellicola non si leva di dosso quell’aura di amatorialità di cui è intrisa, una roba che si avverte messa in piedi con amici e conoscenti che magari saranno anche bravi professionisti ma che non riescono a compensare le velleità sperimentali di Marta Grimalt perché probabilmente nel 2017 le mancavano delle basi, sia economiche che pratico-teoriche. Riconoscendo l’intraprendenza della maiorchina, e suggerendole umilmente di proseguire negli studi sul cinema, il mio pollice si alza timidamente per un finale dal sapore liberatorio, il che non va letto in maniera negativa, al contrario, si sente uno scioglimento, un’apertura dopo un’immersione grigia, disturbata e intermittente.
mercoledì 6 luglio 2022
My Dead Dad’s Porno Tapes
Forse la sensazione che il film si instradi in un insieme riconoscibile e ampiamente codificato è anche dovuto al fatto che la sua ciccia è un manifesto di psicologia da romanzetto, in pratica il padre è sempre stato un po’ burbero perché la madre di lui era una donna molto rigida e severa (ascoltiamo degli stralci di registrazione tra i due), ed anch’essa, a sua volta, ha patito un’educazione soffocante da un genitore definito come un tiranno. Questa cascata di colpe che si ripercuotono sulla progenie successiva è uno di quei stratagemmi narrativi che ormai rasentano l’abuso, chiaramente qui, trattandosi di un documentario aderente alla storia genealogica dei Tyrell, non si potevano pretendere chissà quali rivoluzioni, tuttavia mi metto ad additare il metodo espositivo del regista, molto infighettato e creativo ma incapace di rompere la calotta emotiva. Ad ogni modo la mamma di Charlie verso il termine del corto dice che il cerchio si è spezzato e che non ci sarà più dolore nelle generazioni a venire, spero per loro che possa essere così.
sabato 11 giugno 2022
Triokala
Idealmente Triokala è una discesa dal tragitto circolare che arriva e poi di nuovo si immette nel medesimo cielo. Nel viaggio terrestre segnato da un progressivo avvicinamento alle forme di vita che lì vi dimorano (si parte da un brulichio di insetti), traspira dalla bruma delle montagne un’attenzione particolare ad una dimensione spirituale che silenziosa aleggia, un mix di ritualità e credenze ataviche che sostanziano il cuore dell’opera. Nell’ibridazione di protocollo che il documentario subisce si manifesta una tensione verso dell’indefinita trascendenza, non è solo religione e non è solo tradizione, è sentimento popolare che si ripropone primigenio sotto spoglie diverse (lo sciamano del Paese che cura i malanni dei concittadini bollendo serpenti vivi in un pentolone; la vecchietta che in casa scaccia via gli spiriti maligni con un rametto) ricondotte da Picarella in un finale catartico dove per la prima volta, dopo aver dato del tu ad aria, acqua e terra, facciamo conoscenza con l’elemento del fuoco. L’inafferrabile essenza di una realtà che custodisce ricordi ancestrali all’interno di un’ordinarietà come tante (comunque vediamo gente al bar che gioca a carte e contadini impegnati nei loro lavori) è un po’ il mistero principe dell’esistenza che si ripete chiaroscura lontana dalla costa e che sicuramente Picarella ha colto con buoni intenti e relativa concretezza, se però posso fare un appunto credo che negli ultimi anni ci sia stata nel cinema italiano, almeno quello che si avvale dello stesso dispositivo di Triokala, una “moda” frammartiniana che non ha permesso di far avanzare granché il discorso intorno al metodo, va bene il folklore, va bene la ricerca sul reale, vanno bene le sfumature teologiche, escatologiche, ecc., ma penso si debba e si possa osare maggiormente, sperimentare, sperimentare e ancora sperimentare: forza!
lunedì 30 maggio 2022
The Rules for Everything
Il passo che va un po’ oltre la creazione di aspettative su una tale lunghezza d’onda è dato da un piacevole estro creativo che attraversa l’opera, parlo essenzialmente di soluzioni formali (grafiche, di montaggio e perfino di formato), probabilmente non così indispensabili, che ad ogni modo vivificano il girato, lo ripuliscono da una possibile e pericolosa classicità in favore di una freschezza che, parlando di cinema narrativo, è sempre ben accolta. Poi qua va inserito il discorso decisamente ampio che si tenta di imbastire, perché non si può negare che ci sia quasi un filtro filosofico che voglia spiegare e spiegarci il mondo. Nell’ottica di una maggiore profondità dei significati chi scrive ha riscontrato una discreta arguzia nel cablare la componente riflessiva, che poi diventa una sorta di narratore interno, sugli occhi, il cuore ed il cervello della ragazzina protagonista, e così, scampato un possibile appesantimento dei toni, seguiamo il suo cogitare in voce off. I concetti principali, riportati nel titolo, sono che ci sono delle regole riguardanti tutti, tutti: esseri inanimati e non, e che siffatte norme, volenti o nolenti, direzionano la vita verso una sola meta, la morte. Allegria! Ed il centro della storia, al pari delle sue eventuali diramazioni, conduce al capolinea per eccellenza, alle modalità con cui si può contrastare (sembra che Il settimo sigillo [1957] sia un modello in tal senso), o, magari, per tentare una comprensione, che già sarebbe un qualcosa di importante.
Gli intenti teorici hanno quindi un loro perché, poi subentra il fatto che sembrerebbe crearsi una discrepanza nell’applicazione pratica, se pensiamo a Storm quale personaggio super partes, una coscienza filmica astratta, pensante, praticamente antidiegetica (e il ruolo che riveste nella recita scolastica non è casuale), le corrispettive vicende che coinvolgono la madre paiono viaggiare su ben altri piani, la doppia e repentina perdita (prima sentimentale e subito dopo fisica) del marito, il tentativo di ricostruzione del sé con l’ingresso in scena del giovane e scapestrato guru, sono snodi posti non alla medesima altezza delle aspirazioni concettuali, permane uno scollamento, una non perfetta aderenza che lascia un non so che di amaro in bocca, la sensazione che bastava giusto un cicinino in più per trovare la quadra, nulla toglie che comunque in Hiorthøy, così come in Tunge, si intravedono grandi margini di miglioramento.