lunedì 7 dicembre 2020

Roi Soleil

Albert è ancora in fissa per Luigi XIV, non pago dell’elegia funebre con tanto di autopsia in The Death of Louis XIV (2016), riprende il sovrano borbonico cambiandogli i connotati, non più Jean-Pierre Léaud ma Lluís Serrat, un suo attore, nel senso che al di fuori del cinema di Serra non potrebbe esistere (è sempre presente nella filmografia del catalano, ma il ruolo in cui lo si ricorda di più è nei panni di Sancho in Honour of the Knights, 2006), e non più la corte di valletti né la pomposità di Versailles, però ritroviamo la stessa agonia, se possibile accentuata ulteriormente da una location aliena irradiata di un rosso stinto, come se, appunto, una stella si stesse ormai spegnendo. In Roi Soleil (2018) Serra abbandona i processi di destoricizzazione e/o metaforizzazione che hanno segnato l’intera carriera, l’attenzione, ’sta volta, è rivolta su di sé, un po’ come accadeva nel poco conosciuto El Senyor ha fet en mi meravelles (2011), se c’è qualcosa che si destruttura è il proprio cinema (e la presenza di Serrat funge da sigillo di garanzia), se ne parodizza la morte abbattendo la parete della scena, Re Sole/Serrat arranca, striscia, sospira, si autoalimenta con un curioso alambicco, stramazza a terra, immobile, è tutto vero, è tutto, ovviamente, finto. È il funerale della rappresentazione, il dissolvimento di una frontiera: l’entrata in video di colui che sembra il regista spagnolo per sincerarsi delle condizioni del Re ridetermina fino all’ultimo istante ogni possibile strada semantica, anche questo è fare cinema. Ma anche questo è cinema?

Il quesito sfrigola, basta informarsi prima della visione per sapere che Roi Soleil è stata un’installazione artistica tenutasi nel 2017 presso la Galeria Graça Brandão di Lisbona, e l’oggetto che ne è risultato non è altro che il compendio visivo della performance portoghese. Rispetto agli altri lavori di matrice cinematografica quello sotto esame è per volere di Serra il maggiormente “estremo” e radicalizzato, sia nella forma che nel contenuto, due componenti che tendono idealmente ad uno zero assoluto, sebbene, comunque, ci siano. Chiaro che preso singolarmente e decontestualizzato dal suo habitat naturale il film (ma possiamo ancora definirlo tale?) può suscitare un’irritazione derivante da una spocchia che pare fregarsene di chi sta al di qua dello schermo. Ma è il problema di tutta la videoarte che risiede al confine tra il museo e la sala, aggravato poi dal fatto che di solito si ragiona sempre su delle proiezioni che avvengono nell’anello terminale della catena fruitiva, ovvero la seduta casalinga. Senza la cornice preposta, senza un supporto adeguato, l’esperienza si depotenzia, perde la tridimensionalità che avrebbe, certo è che se Serra ha voluto far uscire l’esibizione dal contesto museale un motivo ci sarà, e credo sia esplicitamente autoriflessivo, per cui, tornando alla domande di sopra, ritengo che sì, Roi Soleil è cinema che si pensa, e, per scendere nel particolare, è Serra che si pensa. In pratica onanismo intellettuale d’alta fattura.

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