domenica 13 dicembre 2020

Killing

Non nuovo ad allestimenti storici, gli affezionati ricorderanno Gemini (1999) oltre al recente Fires on the Plain (2014), Tsukamoto (che quando iniziai a scrivere di cinema si chiamava Shinya mentre da un po’ di tempo è indicato con un apostrofo tra la n e la y) per Zan (2018) va ancora più indietro nel passato rielaborando a modo suo una categoria identificativa della cinematografia nipponica come i samurai-movies. L’impressione è che il regista faccia di necessità virtù: senza un’esorbitante quantità di Yen a disposizione scrive una storia piuttosto lineare aggredita dalla mdp che, come di consueto, misura le scosse telluriche impresse da Shin’ya. Forse non andrebbe neanche sottolineato che l’epoca degli uomini-metallo è finita da un pezzo, del resto lo sappiamo fin dal canto del cigno Tetsuo: The Bullet Man (2009), qui, se andiamo giusto a cercare dei segnali di (uno) stile, una certa insistenza sulle spade impugnate dai ronin potrebbe suggerire la loro natura protesica che si scontra con l’animo di Mokunoshin, il guerriero dal cuore d’oro. A parte ciò, il film segue un canovaccio godibile dando, con mia sorpresa, più peso all’intreccio psicologico che alle scene di lotta, scelta strana ma rispettabile, se Tsukamoto, che sul piano della brutalità sa ancora farsi sentire, avesse esagerato con fontane di sangue e affini avrebbe deprezzato i violenti duelli all’arma bianca che, essendo di contro usati con parsimonia, hanno invece una accettabile energia.

L’aspetto che più interessava al sottoscritto era di vedere i termini e le modalità con cui Tsukamoto approcciava un genere a lui nuovo. Non sono affatto un esperto di chambara però, correggetemi se sbaglio, l’operazione di ammodernamento ritengo sia abbastanza riuscita. Il digitale con il suo rivestimento dà una bella mano, ma anche narrativamente ci sono delle soluzioni in controtendenza al canone di riferimento, di base la vicenda in sé non scatta mai (questa missione per lo shōgun continuamente rimandata), quello a cui assistiamo è una specie di antefatto, un episodio formativo nella vita di Mokunoshin, non vi è la spettacolarizzazione della battaglia, il raggio d’azione è perimetrato in un anonimo villaggio del Giappone rurale. I legami tra i personaggi sono basici, non eccedono in melensaggini da eroe-che-salva-la-bella (anzi, c’è pure un samurai che si masturba, non credo sia mai successo in un’opera di Kurosawa) né esagerano troppo con il registro tragico, anche la figura di Sawamura (interpretato da Tsuka stesso, sempre in forma quando veste i panni attoriali) è sì e no intrigante perché lievemente ambigua (ad un certo punto pare avere quasi del feeling con la ragazza). Poi non sto a nascondermi dietro ad un dito, Zan è una robina che passa e che va, che ci prova, a volte inciampando, tipo nella rappresentazione dei cattivi che sono la copia dei soldati-zombi di Nobi con un improbabile capo che sembra Jack Sparrow, oppure nel condurci al finale telefonato del duello, non male nell’asciutta realizzazione ma troppo scontato nelle premesse.

Vista qualche strizzatina d’occhio al mondo del perturbante (non è una novità nella lunga carriera), si prenda ad esempio l’inquietante preparazione alla vendetta del villain o anche solo le inquadrature sui titoli di coda con l’immagine che vaga raminga nella boscaglia, se avessi Tsukamoto davanti a me gli suggerirei di cimentarsi in un horror dalle venature splatter, potrebbe ritagliarsi una discreta attenzione perché le capacità professionali per confezionare un valido prodotto non gli mancano.

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