giovedì 17 dicembre 2020

Papagajka

Papagajka (2016) potrebbe rientrare (ad essere molto generosi) in quel novero di film che bum: dal nulla introducono un’entità disequilibrante all’interno di un sistema fino a quel momento inviolato, i predecessori sono illustri (Pasolini, Miike, più altri che sicuramente dimentico) e a loro si accoda oggi l’australiana Emma Rozanski, il tentativo è, come direbbero in una telecronaca calcistica, abbastanza velleitario e alla resa dei conti il dubbio che sorge è se la regista sia stata attenta a ravvivare una storia banaluccia per mezzo di procedimenti che espliciterò a breve, oppure se, al contrario, abbia preferito intorbidire un po’ la situazione con i trucchi di cui sopra giusto per dribblare una pericolosa piattezza, il dilemma, comunque lo si legga, non è propedeutico ad una soddisfacente analisi interpretativa perché la materia da cui si parte, il film, non si presta a chissà quali aperture ermeneutiche. Ricordando sempre che un esordio è pur sempre un esordio e che noi facciamo tanto bla bla ma vorrei proprio vederci con una videocamera in mano, alla signorina Rozanski, studentessa della fu film.factory di Sarajevo, rimprovero essenzialmente un’incapacità di toccare quelle corde esistenziali che in teoria vorrebbe lambire, mica facile si penserà, vero, ma il soggetto ultimo della catena produttiva, ovvero lo spettatore, almeno quello assennato, faticando a ritrovarsi in un lavoro che non si distingue granché dalla smisurata offerta a cui può accedere finisce per sbuffare durante la visione.

Soprassedendo sulle sbrigative modalità tramiche con cui Tasya (è un’attrice italiana di nome Susanna Cappellaro) si insedia nella casa del solitario Damir, la redazione del loro rapporto su pellicola è segnato da una staticità che contamina tutta l’atmosfera del film (o viceversa, poco cambia), in questa protratta fissità la Rozanski inserisce un campionario di immagini ricorsive che appaiono improvvisamente sullo schermo, è, in sostanza, la trasmissione di uno stato allucinatorio vissuto dal protagonista: flash, strappi, deviazioni incubiche, il collage simil-delirante è fin gradevole se si vuole (molto lo fa il corredo sonoro, quello sì di un certo rilievo), lo è meno, invece se rapportato alla descrizione (perché ciò è) del guardiano, ossia: anche se la forma ricercata è una forma arty che sotto sotto si prodiga sempre nell’abbagliare e sedurre, il registro illustrativo va a pieno regime nonostante si tenti di spostare sovente l’attenzione su nebulose nonché incalzanti ossessioni. Se ci sia una connessione concreta tra il piano che Tasya alla fine riesce a mettere in atto e i contorti miraggi di Damir ben venga (uno su tutti: in più occasioni vede una specie di suo doppio ectoplasmico: è perché la donna si sta appropriando della sua vita?), fatemelo pure sapere anche se non è che fremo. Béla Tarr ha visto, avrà apprezzato?

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