Soprassedendo sulle sbrigative modalità tramiche con cui Tasya (è un’attrice italiana di nome Susanna Cappellaro) si insedia nella casa del solitario Damir, la redazione del loro rapporto su pellicola è segnato da una staticità che contamina tutta l’atmosfera del film (o viceversa, poco cambia), in questa protratta fissità la Rozanski inserisce un campionario di immagini ricorsive che appaiono improvvisamente sullo schermo, è, in sostanza, la trasmissione di uno stato allucinatorio vissuto dal protagonista: flash, strappi, deviazioni incubiche, il collage simil-delirante è fin gradevole se si vuole (molto lo fa il corredo sonoro, quello sì di un certo rilievo), lo è meno, invece se rapportato alla descrizione (perché ciò è) del guardiano, ossia: anche se la forma ricercata è una forma arty che sotto sotto si prodiga sempre nell’abbagliare e sedurre, il registro illustrativo va a pieno regime nonostante si tenti di spostare sovente l’attenzione su nebulose nonché incalzanti ossessioni. Se ci sia una connessione concreta tra il piano che Tasya alla fine riesce a mettere in atto e i contorti miraggi di Damir ben venga (uno su tutti: in più occasioni vede una specie di suo doppio ectoplasmico: è perché la donna si sta appropriando della sua vita?), fatemelo pure sapere anche se non è che fremo. Béla Tarr ha visto, avrà apprezzato?
giovedì 17 dicembre 2020
Papagajka
Papagajka
(2016) potrebbe rientrare (ad essere molto generosi) in quel novero
di film che bum: dal nulla introducono un’entità disequilibrante
all’interno di un sistema fino a quel momento inviolato, i
predecessori sono illustri (Pasolini, Miike, più altri che
sicuramente dimentico) e a loro si accoda oggi l’australiana Emma
Rozanski, il tentativo è, come direbbero in una telecronaca
calcistica, abbastanza velleitario e alla resa dei conti il dubbio
che sorge è se la regista sia stata attenta a ravvivare una storia
banaluccia per mezzo di procedimenti che espliciterò a breve, oppure
se, al contrario, abbia preferito intorbidire un po’ la situazione
con i trucchi di cui sopra giusto per dribblare una pericolosa
piattezza, il dilemma, comunque lo si legga, non è propedeutico ad
una soddisfacente analisi interpretativa perché la materia da cui si
parte, il film, non si presta a chissà quali aperture ermeneutiche.
Ricordando sempre che un esordio è pur sempre un esordio e che noi
facciamo tanto bla bla ma vorrei proprio vederci con una videocamera
in mano, alla signorina Rozanski, studentessa della fu film.factory
di Sarajevo, rimprovero essenzialmente un’incapacità di toccare
quelle corde esistenziali che in teoria vorrebbe lambire, mica facile
si penserà, vero, ma il soggetto ultimo della catena produttiva,
ovvero lo spettatore, almeno quello assennato, faticando a ritrovarsi
in un lavoro che non si distingue granché dalla smisurata offerta a
cui può accedere finisce per sbuffare durante la visione.
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