
Papagajka
(2016) potrebbe rientrare (ad essere molto generosi) in quel novero
di film che bum: dal nulla introducono un’entità disequilibrante
all’interno di un sistema fino a quel momento inviolato, i
predecessori sono illustri (Pasolini, Miike, più altri che
sicuramente dimentico) e a loro si accoda oggi l’australiana Emma
Rozanski, il tentativo è, come direbbero in una telecronaca
calcistica, abbastanza velleitario e alla resa dei conti il dubbio
che sorge è se la regista sia stata attenta a ravvivare una storia
banaluccia per mezzo di procedimenti che espliciterò a breve, oppure
se, al contrario, abbia preferito intorbidire un po’ la situazione
con i trucchi di cui sopra giusto per dribblare una pericolosa
piattezza, il dilemma, comunque lo si legga, non è propedeutico ad
una soddisfacente analisi interpretativa perché la materia da cui si
parte, il film, non si presta a chissà quali aperture ermeneutiche.
Ricordando sempre che un esordio è pur sempre un esordio e che noi
facciamo tanto bla bla ma vorrei proprio vederci con una videocamera
in mano, alla signorina Rozanski, studentessa della fu film.factory
di Sarajevo, rimprovero essenzialmente un’incapacità di toccare
quelle corde esistenziali che in teoria vorrebbe lambire, mica facile
si penserà, vero, ma il soggetto ultimo della catena produttiva,
ovvero lo spettatore, almeno quello assennato, faticando a ritrovarsi
in un lavoro che non si distingue granché dalla smisurata offerta a
cui può accedere finisce per sbuffare durante la visione.
Soprassedendo sulle
sbrigative modalità tramiche con cui Tasya (è un’attrice italiana
di nome Susanna Cappellaro) si insedia nella casa del solitario
Damir, la redazione del loro rapporto su pellicola è segnato da una
staticità che contamina tutta l’atmosfera del film (o viceversa,
poco cambia), in questa protratta fissità la Rozanski
inserisce un campionario di immagini ricorsive che appaiono
improvvisamente sullo schermo, è, in sostanza, la trasmissione di
uno stato allucinatorio vissuto dal protagonista: flash, strappi,
deviazioni incubiche, il collage simil-delirante è fin gradevole se
si vuole (molto lo fa il corredo sonoro, quello sì di un certo
rilievo), lo è meno, invece se rapportato alla descrizione (perché
ciò è) del guardiano, ossia: anche se la forma ricercata è una
forma arty
che sotto sotto si prodiga sempre nell’abbagliare e sedurre, il
registro illustrativo va a pieno regime nonostante si tenti di
spostare sovente l’attenzione su nebulose nonché incalzanti
ossessioni. Se ci sia una connessione concreta tra il piano che Tasya
alla fine riesce a mettere in atto e i contorti miraggi di Damir ben
venga (uno su tutti: in più occasioni vede una specie di suo doppio
ectoplasmico: è perché la donna si sta appropriando della sua
vita?), fatemelo pure sapere anche se non è che fremo. Béla Tarr ha
visto, avrà apprezzato?
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