sabato 5 dicembre 2020

La mujer de los perros

La mujer de los perros (2015) potrebbe rappresentare l’anello di congiunzione tra due categorie di pellicole visionate in periodi non sospetti, da un lato, quello adibito ad illustrarci delle figure eremitiche di cui altrimenti non avremmo saputo nulla, ricordiamo oggetti come The Creator of the Jungle (2013) o Il solengo (2015), mentre dell’altro è l’adagiamento del cinema sui ritmi naturali in contesti agresti a dettare i tempi narrativi, si veda a tal proposito The Sky Turns (2004) o La primavera (2012), ed il film sotto esame che batte bandiera argentina è collocabile pressoché a metà tra le due prospettive, la mujer è infatti una donna randagia che vive con i suoi cani dentro una baracca lontana, ma non troppo (e su questo tasto sembra che si spinga parecchio), dalla civiltà. Pensata dall’attrice protagonista, Verónica Llinás (accreditata come co-director), un’interprete a quanto pare piuttosto conosciuta nel suo Paese ma per ruoli ben diversi, l’opera è stata realizzata in un arco temporale di circa tre anni da una troupe tutta al femminile capitanata dalla regista Laura Citarella la quale, operando con un budget risicato, ha optato per uno stile sobrio pescando dalla realtà gli ingredienti per edificare la scarna storia. Per intenderci: siamo nel terreno della para-finzione ma è uno di quei casi in cui il confine con la verità è così labile da far amalgamare le due istanze, ci sono e ci saranno esemplari più convincenti nella suddetta area, non va però sottostimata la dignità che La mujer de los perros si riesce a guadagnare sul campo, un rispetto derivante da un’impostazione globale a cui non interessano minimamente gli eccessi e da una correlata coerenza logico-artistica.

Mentre assistevo alla proiezione, in particolare alla prima mezz’ora completamente muta che è interrotta da degli ideali titoli di testa invisibili con dei ragazzini che prendendo a male parole la solitaria cinofila dando il la ad una calibrata entrata musicale, pronosticavo erroneamente che lo stato esistenziale della donna-senza-nome sarebbe stato quasi certamente disequilibrato da un qualche elemento esterno tipo l’improvvisa comparsa di un uomo o l’accadimento di un evento destabilizzante, niente di più sbagliato: una volta acceduti alle frequenze stagionali e ai suoi cicli continui il disegno di Citarella & Llinás si fa comprensibile: non c’è affatto l’intenzione di minare quanto viene ripreso, ma, al contrario, l’idea è quella di proporre un ritratto quanto più aderente possibile al reale senza significative intensificazioni. Chi ne risente maggiormente è, per così dire, lo “spettacolo” poiché il film si fa carico di corpose diluizioni modulari dove le scene in cui non succede alcunché (stai attento spettatore dalla scarsa pazienza) si susseguono ravvicinate, e anche quando vengono inserite delle potenziali variabili di disturbo, penso al cane abbandonato o all’influenza invernale, la corrispondente gestione è scevra di picchi drammatici inserendosi quindi nell’impressa scia naturalistica, quasi a voler suggerire che le cose avvengono e che solo con il passare del tempo si possono affrontare.

Per capire gli attributi non esattamente finzionali de La mujer de los perros ed un nucleo che nega fieramente i principi di azione/reazione, è opportuno concentrarsi sul paradigmatico finale che vede l’anacoreta della casupola assistere ad una manifestazione sportiva di motociclette, la mdp insiste su di lei e su ciò che la circonda ma il carattere è intrepidamente estemporaneo e ha zero legami con ciò che è preceduto, è solo il tassello di un vivere che ne contempla inevitabilmente altri (di cui vediamo subito dopo: il tramonto infuocato, i giochi sull’erba con i cani. Senza contare quanto visto prima) che si ripeteranno un giorno, un mese o un anno dopo, in un cerchio senza fine nel quale, grazie al controllo di Citarella e alla prova di Llinás, ci siamo introdotti di soppiatto per un’ora e trentotto minuti.

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