martedì 15 dicembre 2020

Parsi

Il lavoro di Eduardo Williams successivo a The Human Surge (2016) è semplicemente una BOMBA, altro che il cinemino accomodante, altro che le masturbazioni velleitarie di aspiranti autori, altro che gli ossequianti prodotti che sottostanno alle leggi inquadranti degli schemi formali e narrativi, Parsi (2019) è cinema in purezza, è un altro modo di vedere e sentire le cose, è un’apertura, una finestra, una breccia, un passaggio, una vagina, è l’atto in sé dell’oltrepassare, è, soprattutto, l’essere sopra, o sotto, a tutto: è una totalità racchiusa in venti minuti scarsi che si avvale di due rivi, uno poetico e il secondo estetico. Il primo è la lettura di un poema-anafora scritto da Mariano Blatt (che figura anche come co-regista) dal titolo No es, un elenco non-stop che affastella senza un ordine logico un terremoto di similitudini spezzate, incerte, parece que, all’infinito, il secondo è un corredo visivo che ci catapulta in una zona di Bissau abitata principalmente da travestiti, in un certo senso, qui, parrebbe esserci una continuità con il lungometraggio precedente dove ad un tratto una webcam veniva usata come dispositivo di ripresa, infatti per Parsi il flusso assomiglia ad uno streaming che ogni tanto perde qualità, alcuni siti riferiscono che Williams si sia avvalso di una GoPro in modalità 360°, non so, so solo che il risultato stordisce e si propone in una veste che densifica il reale, un po’ lo falsifica trasformandolo in un video on demand piratato di qualche canale esotico e un po’ lo invera perché l’immersione nelle strade africane è assoluta, da apnea. Ebbene, l’incontro tra l’accatastamento verbale di Blatt e il girovagare ramingo delle immagini, se sulla carta pareva inconciliabile, trova invece accorpamento in un solco dalla potenza asfaltante, anzi: rinnovante, una di quelle rare manifestazioni che rimodulano l’esperienza di “vedere un film”.

Quella di seguire/pedinare gruppi di giovani in un contesto urbano è un tic che Williams si porta dietro fin dagli esordi, Tan atentos (2011) e Pude ver un puma (2011) sono da esempio, però in Parsi l’autore argentino compie un passo ulteriore perché si destituisce dalla sua posizione, la videocamera è difatti tenuta in mano esclusivamente dai ragazzi di Bissau che se la passano come se fosse un testimone, non mi pare un dettaglio: così è un cinema che si fa da solo, che esiste ancora prima e ancora dopo che un occhio tecnologico lo registri, è una proposta su cui ragionare a fondo che mette in discussione quanto c’è di concreto intorno a noi e sulla sua riproducibilità, del tipo: perché un filmato che mostra dei tizi che pattinano o corrono risulta così ipnotizzante? Quali caratteristiche lo rendono attraente una volta riversato sullo schermo? Il discorso ritengo non debba prescindere dalle possibili riflessioni attorno allo strumento utilizzato, il fatto di impiegare un supporto che restituisce una tessitura simile a quella di Google Street View aumenta il grado di tridimensionalità del corto, di esplorabilità e permeabilità, ma questo forse non è abbastanza per spiegare fino a dove Parsi arriva, per farlo cito una sequenza esemplare: quella in cui qualcuno fa roteare furiosamente la (chiamiamola) mdp in aria per poi scagliarla ai piedi di un albero dove lì rimane per essere raccolta dal susseguente regista che proseguirà a girare.

Se non si rompono in tale maniera certe gabbie non so in quale altro possano spezzarsi, un cinema in balia del destino è un qualcosa che mi fa luccicare lo sguardo, senza una strada unidirezionante ce ne sono un migliaio in più da poter percorrere, sorpassi, inversioni a U, retromarce, inchiodate, la libertà di movimento è ampissima al pari del processo esperibile che ne consegue. E quando siamo in completa sintonia con la circolazione audiovisiva, Williams apporta la prima e unica interferenza bloccando il moto apparentemente perpetuo, è la pausa perfetta prima dell’impressionante tuffo nelle buie acque marine con annessa riemersione casalinga. E allora: che opera stratosferica è Parsi, una poesia di ascensione e catabasi, un live che non è live, che è al di là, che è qua: nell’attualità, e che sarà, perché se dovessi fare dei nomi per il futuro della settima arte quello di Eduardo Williams sarebbe in cima alla lista.

Dita sporche che grattano in orifizi oscuri; immagini sfocate che si insinuano a fondo nei meandri pulciosi della mente. E quello che erano stati i nostri genitori ora se ne stava a marcire e puzzare sotto la calce del ventesimo secolo. Sul cielo, in silenzio, era stata gettata una rete di ferro. Ora, ritirata in secco, ci tagliava a filo la carne tenera delle cervella. Le bussate che ci assestava alla testa ci rendevano estranei, anche a noi stessi. E in fondo a tutto la nostra mente suppurava: gangrenosa. Gangsterosa. Le mutande della nostra anima erano piene di buchi e il pacco che nascondevano era infestato di pidocchi. Eravamo puttane; mangiate fino all'osso dalla sifilide venuta assieme all'uomo bianco. Ci masturbavamo sul paginone centrale di Playboy; gridavamo insulti al solitario ma spavaldo razzista; scoprivamo il culo alla latrina spalancata; scrivevamo arrabbiati versi «neri»; scopavamo fiche come a dimostrare che i bianchi in realtà non esistono; tutto questo era contenuto nella circonvenzione del torcibudella. 

(Dambudzo Marechera – La casa della fame, Racconti Edizioni; 2019)

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