
Non possiamo
girarci troppo intorno: questo, è sempre lo stesso Roy Andersson, o
piace o non piace oppure se piaceva, adesso non piace più, che è un
po’ la posizione del sottoscritto, il motivo è presto detto ed è
forse una riflessione più pregna di
Om det oändliga (2019)
in sé: si parla sempre di autorialità, di stile e via dicendo, come
si afferma spesso che certi registi non hanno fatto vari film, ma
solo uno, lunghissimo, i suddetti concetti sono totalmente
applicabili allo svedese eppure perché già
Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza
(2014) e adesso Sulla infinitezza
mi sono parse estetizzazioni carine nella loro composizione formale
ma piuttosto vacue una volta scandagliato il comparto dei
significati? E dire che al tempo Songs from the Second Floor (2000) fu una visione che
ci lasciò addosso una piacevole meraviglia, però, considerando le
opere che gli sono succedute, mi sento di sostenere che il
sistema-Andersson non regge, se la continuità stilistica, ad un
certo punto, la si avverte più come una ripetizione che come un
marchio di fabbrica ho impressione che le cose non stiano andando per
il verso giusto. Se si invertisse uno dei tableaux vivants
che compongono About
Endlessness con un altro
proveniente dalla filmografia del regista, sarebbe pressoché
impossibile accorgersene, qualcuno dirà: bene!, finalmente una
proposta unica, coerente e strettamente personale, qualcun altro
invece ne converrà che: ancora quadri fissi popolati da gente
pallida che vorrebbero far riflettere su faccende di stampo
esistenziale attraverso delle arcinote modalità tecniche? Spiace per
l’alta professionalità che c’è dietro ma un cinema così, oggi,
ha poca ragione di esistere.
A
parte un’innocua voce over che commenta il susseguirsi di scenette
(sarebbe una specie di Shahrazād), il resto del film è in
linea con i precedenti sebbene qui venga meno l’unitarietà
semantica suggerita dal titolo. Cioè: se si volevano affrontare
questioni come l’infinitezza, l’interminabilità o
l’illimitatezza (di cosa poi?), non ho trovato un concreto
riscontro nei diorami allestiti, data la vastità argomentativa
dentro ci si poteva infilare di tutto e in effetti è così che
accade, con requiem per un senso di insieme sostituito invece da una
futile frammentarietà. Sì, pur essendoci almeno due personaggi che
ritornano (il prete che ha perso la fede ed il tizio invidioso
dell’ex compagno di scuola), non è possibile parlare di una
struttura ricorsiva, Andersson va così, millimetrando
ambienti che si trasformano in pittura su pellicola, è bravissimo a
farlo, è il migliore (anche perché non ha concorrenza), e gli si
riconosce la capacità di consegnare agli account Instagram di
cinefili (ma ci sono?) delle immagini fighe:
la Via Crucis, la chagalliana coppia volante, Hitler, la marcia dei
soldati nella neve, però, e me lo chiedevo anche per il Piccione,
è sufficiente un apparato curato al dettaglio per farci innamorare
dell’opera? Se l’apparato si ripropone identico da vent’anni, e
se ciò che vuole veicolare è bene o male un pensiero autoriciclato,
io di provare amore non ci riesco proprio, vieppiù che anche l’humor
ghignante che ha sempre caratterizzato Andersson in Om det
oändliga è quasi non
pervenuto, quindi per me è un grosso no, avanti un altro per favore.
Sottoscrivo. Grandissima delusione. Questo film non mi ha comunicato assolutamente nulla. Per me le sue vette rimangono "Songs from the Second Floor" e "World of Glory".
RispondiEliminaBisogna anche contestualizzare la visione di Songs from..., Nel senso io l'avrò visto dieci anni fa, non so se ne avrei le medesime impressioni oggi, ma questo è un discorso lungo che vale un po' per tutte le esperienze artistiche che si fanno
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