sabato 19 dicembre 2020

Sulla infinitezza

Non possiamo girarci troppo intorno: questo, è sempre lo stesso Roy Andersson, o piace o non piace oppure se piaceva, adesso non piace più, che è un po’ la posizione del sottoscritto, il motivo è presto detto ed è forse una riflessione più pregna di Om det oändliga (2019) in sé: si parla sempre di autorialità, di stile e via dicendo, come si afferma spesso che certi registi non hanno fatto vari film, ma solo uno, lunghissimo, i suddetti concetti sono totalmente applicabili allo svedese eppure perché già Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza (2014) e adesso Sulla infinitezza mi sono parse estetizzazioni carine nella loro composizione formale ma piuttosto vacue una volta scandagliato il comparto dei significati? E dire che al tempo Songs from the Second Floor (2000) fu una visione che ci lasciò addosso una piacevole meraviglia, però, considerando le opere che gli sono succedute, mi sento di sostenere che il sistema-Andersson non regge, se la continuità stilistica, ad un certo punto, la si avverte più come una ripetizione che come un marchio di fabbrica ho impressione che le cose non stiano andando per il verso giusto. Se si invertisse uno dei tableaux vivants che compongono About Endlessness con un altro proveniente dalla filmografia del regista, sarebbe pressoché impossibile accorgersene, qualcuno dirà: bene!, finalmente una proposta unica, coerente e strettamente personale, qualcun altro invece ne converrà che: ancora quadri fissi popolati da gente pallida che vorrebbero far riflettere su faccende di stampo esistenziale attraverso delle arcinote modalità tecniche? Spiace per l’alta professionalità che c’è dietro ma un cinema così, oggi, ha poca ragione di esistere.

A parte un’innocua voce over che commenta il susseguirsi di scenette (sarebbe una specie di Shahrazād), il resto del film è in linea con i precedenti sebbene qui venga meno l’unitarietà semantica suggerita dal titolo. Cioè: se si volevano affrontare questioni come l’infinitezza, l’interminabilità o l’illimitatezza (di cosa poi?), non ho trovato un concreto riscontro nei diorami allestiti, data la vastità argomentativa dentro ci si poteva infilare di tutto e in effetti è così che accade, con requiem per un senso di insieme sostituito invece da una futile frammentarietà. Sì, pur essendoci almeno due personaggi che ritornano (il prete che ha perso la fede ed il tizio invidioso dell’ex compagno di scuola), non è possibile parlare di una struttura ricorsiva, Andersson va così, millimetrando ambienti che si trasformano in pittura su pellicola, è bravissimo a farlo, è il migliore (anche perché non ha concorrenza), e gli si riconosce la capacità di consegnare agli account Instagram di cinefili (ma ci sono?) delle immagini fighe: la Via Crucis, la chagalliana coppia volante, Hitler, la marcia dei soldati nella neve, però, e me lo chiedevo anche per il Piccione, è sufficiente un apparato curato al dettaglio per farci innamorare dell’opera? Se l’apparato si ripropone identico da vent’anni, e se ciò che vuole veicolare è bene o male un pensiero autoriciclato, io di provare amore non ci riesco proprio, vieppiù che anche l’humor ghignante che ha sempre caratterizzato Andersson in Om det oändliga è quasi non pervenuto, quindi per me è un grosso no, avanti un altro per favore.

2 commenti:

  1. Sottoscrivo. Grandissima delusione. Questo film non mi ha comunicato assolutamente nulla. Per me le sue vette rimangono "Songs from the Second Floor" e "World of Glory".

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  2. Bisogna anche contestualizzare la visione di Songs from..., Nel senso io l'avrò visto dieci anni fa, non so se ne avrei le medesime impressioni oggi, ma questo è un discorso lungo che vale un po' per tutte le esperienze artistiche che si fanno

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