martedì 30 aprile 2013

Maniac

Maniac (2011) potrebbe essere giudicato in una manciata di righe: nel leggere la sinossi il senso dell’operazione è piuttosto lampante per cui ogni passaggio risente un po’ di questa mono-dimensione concettuale che mette di fronte chi vede (lo spettatore) e ciò che è visto (i due assassini). Però se la regia porta la firma di Shia LaBeouf, proprio quel LaBeouf protagonista di giga-produzioni americane, allora ci si allieta un goccio, ovviamente senza particolare trasporto, però sapere il ragazzo non artisticamente omologato dalle pellicole in cui ha recitato trasmette una microscopica dose di stupore. Perché in fondo il cortometraggio non è malaccio, perlomeno l’attore losangelino si gioca la carta di una fotografia metallica, un b/n  iridescente lontano dalle solite tinte a stelle e strisce, e poi opta per soluzioni tecniche che denotano un minimo ed anche più di attenzione alla forma: l’iniziale carrello laterale, gli accorgimenti (tarantiniani) come i sicari che discutono al ristorante o lo schizzo di sangue che macchia la lente della mdp, robetta tra l’ordinario e non che fila via senza arrecare disturbo.

È però sul piano “sperimentale” che si poteva sviluppare meglio il film, perché a prescindere dai richiami di genere, è palesemente nell’apertura meta che LaBeouf vorrebbe lasciare il segno. L’idea è decente (ma pare riciclata da un film non visto dal sottoscritto: Man Bites Dog, 1992) e, se vogliamo esagerare, anche intrigante, soltanto che non è sfruttata adeguatamente, in altre parole ad esclusione di un momento in cui uno dei due killer (è Kid Cudi!) interagisce con chi sorregge la cinepresa offrendogli una caramella, per tutto il resto dell’opera il possibile gioco tra realtà e finzione, cruccio di molti autori esorbitanti (vedi Lynch), viene ovviato lasciando agli atti soltanto le malefatte dei sicari che francamente sono prive di sprazzi interessanti (agguati nel parco, irruzioni in camere da hotel, uccisioni di coppiette appartate). Poi sì, con il finale l’obiettivo sarebbe quello di piazzare la zampata, non solo allegorica, in grado di rovesciare gli assiomi (l’osservatore cade sotto i colpi dell’osservato), ma c’è un odore di forzatura che non convince appieno, sensazioni che spingono a pensare di come le sorti di un progetto ambizioso potevano avere riuscita migliore, resta il fatto che Shia LaBeouf non ha neanche trent’anni e se non si fa plagiare troppo da Bay e compagnia cantante ha in un film come Maniac una discreta base da cui partire.

domenica 28 aprile 2013

A Cara que Mereces

Anche se al primo lungometraggio Miguel Gomes mostra con A Cara que Mereces (2004) una tendenza a sperimentare non comune, oltre che una padronanza stilistica in grado di pronosticare già un futuro aureo. Restando sulla sponda della sperimentazione salta immediatamente all’occhio quello che si può definire un vero e proprio marchio di fabbrica dell’autore portoghese, perché anche qui Gomes si gioca la carta del film diviso in due dimezzando quindi il corpo della pellicola che si ritrova costituito da due porzioni ben poco dipendenti l’una dall’altra. Nella prima, parecchio più breve rispetto alla seconda, possiamo scovare in miniatura le colonne che sosterranno i successivi due film del lisbonese: c’è un accenno di melò con annesso tradimento (e va citata la presenza di un coccodrillo di peluche formato extralarge che riporta inevitabilmente a Tabu, 2012) e ci sono degli intervalli musicali (sono due: quello telefonico è molto divertente) dove gli attori in scena se la cantano che è un piacere suggerendo, quindi, un altro elemento di seminalità che fiorirà in Our Beloved Month of August (2008). A sostenere questa prima frazione, in aggiunta agli ingredienti appena citati, ci pensa quel sense of humor per nulla invadente che dona una piacevole briosità al segmento.

Tutto cambia nella parte seguente, e non è un eufemismo, davvero: Gomes ribalta i connotati dell’opera abbandonando il fin lì protagonista Francisco giunto allo step dei trent’anni nei deliri del suo morbillo (è altamente probabile che ciò che seguirà dal momento in cui si mette a letto non è altro che un suo sogno barra incubo) e si impegna ad ingarbugliare la faccenda con una grottesca rimasticazione della fiaba di Biancaneve (come prima, è probabile che la scelta di tale favola sia dovuta al fatto che Francisco aveva appena assistito ad una recita scolastica della suddetta, fornendo perciò, se vogliamo, anche una connessione logica). Sullo schermo si affastellano sette strambi personaggi (visto il numero è facile capire chi rappresenterebbero…) che si dicono impegnati nell’accudimento di Francisco ma che al contrario Gomes impelaga in digressioni dove è complicato scorgere un chiaro senso d’insieme; varie ed irrisolvibili sono le situazioni che il surreale settetto si trova ad affrontare, e da tale pluralità, sganciata in toto da qualunque parvenza di razionalità, ammontano immagini, segni, oggetti, metafore, epifanie e quant’altro possiate immaginare di altrettanto aleatorio. Insomma, si vorrà sapere, il primo lungometraggio di Miguel Gomes è un mezzo pasticcio? Lui una chiave di lettura (presa da qui) l’ha fornita, e val la pena buttarci uno sguardo:

In A Cara que Mereces ho voluto affrontare la crisi di mezza età di un uomo immaturo con il quale mi identificavo; era un esorcismo, nel quale evocavo sette creature come i sette nani della fiaba dei Grimm. È un film sulla morte dell’infanzia, non in forma metaforica bensì letterale: reinvento un mondo infantile che al suo interno ha tutte le stigmate dell’età adulta. Se ci pensi, la fine dell’infanzia può essere una cosa crudele: per questo ho creato sette figure, sette fantasmi, che posseggono un codice, come in un gioco di bambini. Fantasmi proiettati da qualcuno che sta realizzando un film, cioè io.

Presa coscienza della sfumatura autobiografica, la dimora dei sette uomini diventa attraverso le parole di Gomes come la colonia di Tabu, ovvero un luogo metafisico, un luogo affrancato dalle leggi della realtà (si può sparare ad una nuvola? Si può trovare il mare in un bosco?), dove il cinema diventa il medium tra la dimensione del concreto (d’altronde girano giornaletti porno nella casa) e quella della fantasia (il mostro in cantina). L’idea sulla carta è vincente, e tanto di cappello a Gomes che già nel 2004 dimostrava di saper battere strade per nulla convenzionali, quello che gli si può imputare è però uno sviluppo di questa idea sghembo, criptico e frammentato (il sottoscritto senza le sue ammissioni non sarebbe arrivato al nocciolo della questione), risultando ostile alla fruizione e forse troppo impegnato negli assunti teorici del film, i quali comunque sono validi e rivelano uno spirito autoriale meritevole di ogni miglior augurio. Perché Gomes ha le carte in regola per lasciare un segno profondo nel cinema contemporaneo.

venerdì 26 aprile 2013

Oslo, August 31st

Anders, ex tossico ora in riabilitazione, ha il permesso di riassaporare la città per un colloquio di lavoro. Qui la reunion con delle vecchie conoscenze lo spinge ad un drastico passo…

Joachim Trier, regista dal cognome indubbiamente pesante, accende fin da subito i riflettori sull’elemento cardine della sua opera: il logos. L’ottimo incipit, costituito da una carrellata di immagini in Super 8, raccoglie come una Babele metropolitana i ricordi dei cittadini di Oslo fino a che questa raffica di parole viene ammutolita dal crollo di un palazzo. È un campanello d’allarme: nonostante il piacere mnestico che si struttura nell’attualizzare il passato la strada intrapresa non può che essere autodistruttiva, compassata certo, ma senza possibilità di ritorno: quella pietra nel fiume attenderà ancora per poco.

Trattandosi di una pellicola incentrata su un ragazzo con problemi già visti ma comunque sia sempre meritevoli di essere riproposti, l’idea pre-visione contemplava un approccio enfatizzante colmo di sottolineature per acutizzare la cifra drammatica. Invece no. La manovra di Trier è coraggiosa e degna di essere vista; l’obiettivo, centrato quasi in toto, è quello di esplicitare il profondo disagio di Anders nelle insenature dei dialoghi, fra gli intercapedini delle Parole, sputate, sospirate, anche non dette, magari acciuffate dal muto campo-controcampo. È quindi una rappresentazione placida di un sisma personale, un continuo passaggio per quadri contraddistinti da un progressivo e diverso rapportarsi con l’Altro mentre lo sfondo, Oslo, prosegue il suo incessante cogitare (l’esemplare sequenza all’interno del bar); è necessario stare attenti a ciò che viene detto per poter stanare un malessere che dietro facciate insospettabili (il vecchio amico ora marito e padre) continua a covare una brace oltremodo incandescente.

Il flusso verbale, non proprio incoraggiante per chi propende di più per la saturazione dell’occhio che dell’orecchio, è un adatto fonendoscopio per auscultare ciò che sta sotto l’esteso vatuttobene sociale. È cinema avvolto da una patina congelante che trattiene quell’auspicato magnetismo fruitivo, la stiticità è però solo nello sguardo di chi non coglie nella narrazione discorsiva l’incedere di un epilogo, una fine anticipata da un fuoco fatuo come può essere la più fugace delle avventure notturne, abilmente sconfessata dal montaggio del prologo (la stessa piscina, ma d’inverno), che nella sua concretizzazione lascia da parte perfino quel logos che fino a quel momento aveva costituito il fondamento di tutto: gli ultimi ricordi (esattamente quella finestra, quel poggiolo, quel bar, quella panchina, quel fiume) non hanno bisogno di commenti, resta l’immagine spoglia e silenziosa. Dopo è solo una schermata nera.

lunedì 22 aprile 2013

Rafa

Toni bassi e asciuttezza di fondo per l’Orso d’Oro di categoria a Berlino ’12. Il film del giovanissimo João Salaviza, già protagonista di un altro trionfo non meno importante (Palma d’Oro per Arena, 2009), è uno sguardo che tende allo spaccato sociale senza la volontà di sottolineare le defezioni che costituiscono il vivere del piccolo Rafael; si naviga nel rimando, nell’accenno, nell’istantanea di un dialogo (ad esempio quello iniziale in cui si evince l’assenza della madre all’interno della casa). È un leit motiv perché la trasmissione di dati prosegue sulle stesse frequenze fino alla fine, non è un caso dunque se per rappresentare lo stato non abbiente del protagonista vengono proposti dei momenti, vedasi il viaggio a scrocco verso Lisbona o il furto ai danni di uno skater (interessante qui la ripresa frontale “tempestata” dalle sagome controluce che effettuano dei tricks sull’asfalto). Ma è nel mezzo che il corto compie una leggera svolta nell’impostazione: quando il ragazzo si siede alla scrivania del commissariato il regista abbandona il canovaccio fin lì utilizzato per diventare diretto e conciso: domanda e risposta, non si scappa.

La conversazione ha contorni un po’ strani perché impiantata esclusivamente su un mono-campo riguardante Rafa e una voce off che ponendo dei quesiti suggerisce la chiave d’accesso per il racconto. Il dialogo, inframezzato da fotogrammi neri che ben mostrano lo scorrere del tempo, permette allo spettatore di capire: la parola dipana, esplicita quanto si era potuto intuire fino a quel momento: la mamma non c’è perché si è schiantata con la macchina del fidanzato. Il dramma, mai esibito, è comunque compagno di vita tutti i santi giorni, una vita che non ha sorriso a Rafael: a tredici anni deve già fare i conti con delle assenze che non potranno che responsabilizzarlo: un bimbo (i giochi col cane sulla spiaggia), eppure già genitore (l’ultima immagine con il nipote – senza padre – in braccio), già uomo (nell’idea dell’opera: un adolescente a cui non è permesso di essere tale).

sabato 20 aprile 2013

Come un tuono

Due parole su Ryan Gosling (con spoiler).

A soli trentatre anni Gosling è già una stella del firmamento hollywoodiano: dopo Clooney e Sean Penn è in uscita con il nuovo Refn, senza dimenticare la partecipazione in uno dei misteriosi progetti di Malick; da tali premesse posso asserire che, pur non conoscendo in profondità la sua filmografia, concentrandomi sugli ultimi quattro o cinque film in cui ha recitato è possibile scorgere in almeno tre di essi una scrittura dei personaggi da lui interpretati volta a delineare una nuova figura dell’eroe moderno, eroe che non per forza deve indossare il mantello per sottolineare il proprio status (accettare un figlio non legittimo: Blue Valentine, 2010) e che anche quando lo indossa (Drive, 2011) rivela sotto l’uniforme un cuore grande che batte per chi gli sta accanto. In The Place Beyond the Pines (2012) navighiamo in acque limitrofe, il suo ruolo è caratterizzato da un romanticismo che sta quindi diventando tipico: né troppo mellifluo, né troppo ostinatamente riposto in quelle fibre muscolari, bensì “giusto”, o qualcosa che gli si avvicina, e la diretta conseguenza è che il Gosling di questi film piace, c’è poco da fare: l’appeal, il carisma, che emana nella direzione dello spettatore (maschile e femminile indistintamente) è forte e cementa l’empatia. Quindi bravo Gosling ad accettare tali proposte, e bravi Refn e Cianfrance ad aver calibrato sul corpo di questo ragazzone nato in Canada un modello attoriale che funziona. D’altronde l’impressione del sottoscritto vedendo Come un tuono è stata che sebbene Gosling abbandoni il set ad un terzo dell’opera, la sua non-presenza scenica è così forte che nei restanti due terzi è come se fosse stato sempre lì a sgasare con la motocicletta.

Due parole su Derek Cianfrance (idem come sopra).

Blue Valentine fu apprezzato da chi scrive per l’azione svecchiante sul genere: vero che si trattava di una normale storia d’amore, ma vero anche che la conformazione data dal regista trasmetteva una certa freschezza. Con Come un tuono Cianfrance alza la posta in gioco e partorisce un’opera inevitabilmente più complessa della precedente poiché si fa contenitore categoriale riunente etichette diverse, tre e forse più approcci che cavalcano una porzione di storia americana. La concertazione di questa pluralità è valida, almeno fino a quando non ci si mette a fare i pignoli: vi sono all’interno della sceneggiatura delle costrizioni narrative che trasmettono un’avvertibile rigidità, sottolineo quella che a mio avviso è più evidente: non sono riuscito pienamente a credere alla rabbia cieca del figlio di Luke disposto a fare valere i diritti del proprio padre fino a quel momento mai visto, nemmeno in fotografia. Mancano dei presupposti convincenti a dare linfa a ciò che poi sfocerà nella scena madre del film, e se vogliamo anche il comportamento di Luke stesso che da spericolato ribelle passa a padre premuroso (ma sempre spericolato) è additabile di un’assenza di premesse che legittimino il cambio di rotta. Nei su una superficie che Cianfrance stende su tematiche e argomenti che non si esauriscono di sicuro dopo una sola visione, ergo: è comunque doveroso tenere sott’occhio questo regista, l’abilità nel saper e nel voler raccontare è dote che lo premia e che dà fiducia per il futuro.

Una parola su Come un tuono.

I lustrini del cinema americano orbitano ad una distanza di sicurezza nonostante il film sotto esame sia intriso di americanità su tutti i fronti (nello script, nei meccanismi, nello sguardo sulla provincia, nelle musiche [Bruce Springsteen]); è imperfetto e temerario, se vogliamo anche didascalico nell’esposizione dei legami sentimentali, però galoppa spedito verso la meta lasciandoci un sapore di epopea a stelle e strisce che non infastidisce per la sua opulenza. Incompleto o no, l’importante, per quanto mi riguarda, è che questo affresco yankee esista.

Meglio non sprecare parole sulla traduzione italiana del titolo.

mercoledì 17 aprile 2013

Womb

Il ritorno di Fliegauf al cinema narrativo dopo due film di ricerca come Milky Way (2007) e Csillogás (2008) spiazza. Se riprendiamo i lavori degli esordi (Rengeteg [2003] e Dealer [2004]) che erano sì di fiction ma avevano una natura radicale finanche innovativa e li rapportiamo a Womb (2010), si scoprirà seduta stante di come per quest’ultimo il regista ungherese abbia addomesticato lo stile in nome di una potabilità per il pubblico più vasto (la recitazione in inglese è un segnale eloquente), e infatti il film si è dimostrato così accessibile che perfino la distribuzione italiana (con due anni di ritardo) lo ha portato nelle nostre sale.
Appurato dunque un cambio di rotta che per il sottoscritto non è esattamente il migliore dei biglietti da visita, è doveroso riconoscere a Fliegauf la capacità di non trattare la banalità, di essere a suo modo provocatore e di non aver timori reverenziali verso il tabù per eccellenza. La sua storia galleggia in un limbo di orizzontalità dove il mare e la spiaggia si fondono in un unico, sconfinato, panorama (si tratta della località balneare tedesca Sankt Peter-Ording); in questa atmosfera di accogliente eternità Fliegauf crea una bolla temporale dove passato e presente coesistono, si amalgamano, diventano un tutt’uno come l’ambiente gestazionale che li contiene. Fliegauf permette la compresenza di ciò che era e ciò che è attingendo per la prima volta all’enciclopedia della fantascienza che “gli regala” l’escamotage della clonazione per centrare gli obiettivi preposti, obiettivi che dribblano le montagne dell’eticità (c’è qualche rapido accenno) per rivelare alla fin fine il proprio nucleo sentimentale.

L’idea di Fliegauf è lodevole e capace di generare dei cortocircuiti concettuali che trovano catarsi in dettagli sfuggenti: Rebecca incinta che si reca alla tomba di Thomas, la presenza sulla battigia di due pesci simil-preistorici, il dinosauro giocattolo sotterrato e poi recuperato dalla madre, piccole riprove che testimoniano l’ubriacante compenetrazione del prima nell’ora, particelle di una materia aerea racchiusa in un grembo che tutto contiene, maternità ciclica e perenne.
Qui arriva l’inevitabile Però figlio dell’ammaestramento di Fliegauf che dal momento in cui Thomas giunge alla stessa età dell’originale non riesce a proporre come probabilmente vorrebbe il rapporto conflittuale che vive Rebecca divisa tra l’essere madre e l’essere amante. L’introduzione della ragazzetta genera delle rigidità figlie di un cinema mansueto obbligato a raccontare tutto, ed anche se la finezza registica non viene mai a mancare ci sono precise situazioni che scemano di genuinità e dunque l’artifizio (Rebecca che si era insinuata nel letto del figlio e che una volta sotto le coperte assiste agli amoreggiamenti della coppia senza che Thomas [consapevole che la madre era lì nella stanza] si sottragga immediatamente alle avances della fidanzata) e la letteralità (Rebecca che sente i giovini accoppiarsi nella stanza adiacente) pesano sull’autenticità del filo amoroso che come abbiamo detto ha un ruolo base all’interno del film.

Il finale non migliora l’andazzo perché macchiato da una sbrigatività eccessiva. La scoperta della reale identità da parte di Thomas avviene dopo un’ora e trentacinque minuti di proiezione, l’amplesso incestuoso dopo un’ora e quaranta minuti. Difficile credere che in appena trecento secondi l’uomo Thomas, figlio fino a due battiti di ciglia prima, si abbandoni alla carne di Rebecca la quale è passibile di un ragionamento molto simile. Non si chiede la verosimiglianza ad un film a cui non interessa l’attendibilità, ma almeno una coerenza logica che dia tridimensionalità ai personaggi invece di proporli come figurine sottomesse ai meccanismi filmici. Se queste osservazioni suonano ammantate di una fastidiosa pignoleria il primo a rammaricarsene è il sottoscritto, sono scaturite dalla visione e amplificate dal nome del regista, prendeteli così: appunti di pancia.

lunedì 15 aprile 2013

L'homme sans tête

Stanco già dopo pochi minuti di proiezione (la costruzione grafica degli ambienti esterni non rappresenta di certo una novità), al corto di Solanas servirebbero dei defibrillatori per giungere alla sua conclusione, ma di scariche non ce ne sono ed anche se al contrario ci fossero è difficile pensare ad un risveglio dal coma. Allora non c’è altra soluzione che la passività, il subire un’espressione che si gioca tutte le carte praticamente già dal titolo: L’uomo senza testa è per l’appunto tale, e appena impostate le cose (il sottofondo sentimentale), il prosieguo diventa chiaro nell’immediato, bolso, telefonato: è insufficiente, per chi scrive, la presunta emozione nel vedere assurgere la gestualità a mimica facciale e/o comunicazione verbale perché a monte c’è un problema insormontabile, non esiste alcun codice tra emittente e ricevente, il protagonista acefalo non ha alcunché di attraente da dire, da comunicare, se non una modesta sintesi di quanto accadrebbe in una soap opera di basso rango, sempre ammesso che ne esistano di alto.

Proseguendo si scopre che i balbettamenti non riguardano soltanto la figura principale, ma, allargando il quadro di interesse, anche il regista franco-argentino che non osa neanche un briciolo, un guizzo, uno spunto che vada oltre la deteriorata morale di fondo, mantra plastificato dalla massa e dal luogo comune: “sii sempre te stesso, soprattutto in amore”, proverbiale consiglio che se ostentato in tale modo all’interno di un film finisce per desertificare il medesimo, prosciugarlo di quegli effetti che fanno del cinema un mezzo per suscitare quanto di buono c’è ancora dentro di noi; qui, nonostante la messa in scena e qualche angolazione azzeccata, il banale regna, l’amore si liofilizza, il romanticismo si appaia a quello delle scatole di cioccolatini, e chi accusa di più il colpo è la settima arte che diventa un vuoto pneumatico nel quale rimbomba un’eco: guardate un annodatore di palloncini, sarà più gratificante.
Insieme a Ver llover (2006) L’homme sans tête (2003) rappresenta uno degli abbagli più grossi da parte della giuria di Cannes.   

sabato 13 aprile 2013

Il rapinatore

Johann e la coesistenza di due sé: il maratoneta vincente, lo sportivo che si sacrifica con determinazione per raggiungere il suo traguardo, e il rapinatore di banche non meno cocciuto nelle azioni che compie.

Benjamin Heisenberg, tedesco classe’74, gira nel 2010 il suo film in Austria, nazione che negli ultimi anni dal punto di vista cinematografico si è assestata su livelli d’eccellenza. E proprio dai colleghi austriaci (citiamo Seidl e Haneke come top assoluto) questo giovane regista sembra volere ricalcare la medesima sobrietà, pochissimi sono infatti i fronzoli: nel globale il film è asciutto anche quando gli eventi si fanno più movimentati, ed è altrettanto minimale nell’inscenare lo scorrere esistenziale di Johann una volta uscito di prigione. Nella prima parte è evidente questa voluta contrapposizione tra le statiche vicissitudini di un uomo qualunque (l’affitto, il lavoro, le parentesi sentimentali) e le frenetiche disavventure di un ladro. Heisenberg, autore anche della sceneggiatura ispirata da un libro di Martin Prinz, non trova la chiave dell’amalgama, la giustezza della complementarietà: i frangenti in cui l’uomo non imbraccia un fucile difettano di appeal, sono deboli per concentrato e per via di trasmissione, in soldoni restano qualche passo indietro alle accelerazioni riguardanti i colpi in banca che, e va detto, non hanno una gran dose di innovazione ma che al di là del loro essere “già visti” si presentano in maniera decorosa.
L’effetto più negativo che scaturisce da questa duplice pista iniqua è che il personaggio principale si allontana progressivamente dallo spettatore poiché circondato da un’avvolgente bolla anestetica.

Sebbene l’origine del sollevamento della pellicola sia da ricondurre ad una non risibile esagerazione (ok la sottolineatura della corsa come atto liberatorio, ma fuggire da una stazione di polizia a piedi non convince troppo), dal momento in cui Johann diventa un fuggitivo il film ha finalmente una crescita dovuta all’impostazione drammatica che, sempre finalmente, si getta nella tensione trovando un taglio sufficientemente apprensivo e proponendo quadri in grado di stuzzicare l’appetito estetico (il campo lungo del bosco macchiato dalle luci rabdomantiche dei poliziotti è, appunto, da pollice alto). Non siamo ovviamente ai livelli di una rappresaglia action perché, è bene ricordarlo, Heisenberg continua ad operare sottotraccia anche durante la selvatica clandestinità del suo protagonista, comunque sia il deposito sulle meningi di chi assiste non è poi così lieve e a legittimare ciò ci pensa il finale, ben congegnato con quei flashback, che un po’ beffardamente mette sulla corsia d’emergenza un corridore inafferrabile capace di seminare qualunque inseguitore, esclusa la Morte.

giovedì 11 aprile 2013

Un giorno devi andare

Il vento fa il suo giro (2005), L’uomo che verrà (2009) e oggi Un giorno devi andare (2013). Il cinema di Giorgio Diritti si conferma serbatoio di alterità, conca radunante storie che hanno la peculiarità di non appartenerci e al contempo di far parte di noi, delle nostre radici, della nostra realtà. Dalle valli occitane fino all’Amazzonia passando per la provincia bolognese, Diritti si è posto paletti che hanno dato forma ad un’espressione ormai già definibile come autoriale: recitazione in dialetto, e, nel caso di quest’opera, in portoghese, presenza di attori non professionisti, esaltazione di un ambiente che sia nel suo essere montano, o rurale o esotico non perde mai una cifra da protagonista, sguardo puntato sulle comunità, sulle minoranze, su delle miniature sociali che presentano, e subitaneamente rimandano, a problematiche odierne, urgenti ed irrisolte. 

Un giorno devi andare si tripartisce in un percorso che ha in Augusta il suo baricentro, Diritti è abile nel mimetizzare il film che nel suo arco temporale abbraccia tre diverse modalità con cui la protagonista tenta di ricercare quel senso smarrito nel mondo civile. La prima parte depista facendoci credere che il lungometraggio non sia altro che un depliant illustrativo delle azioni caritatevoli compiute dai missionari cattolici, in questo scenario di coatta evangelizzazione vediamo il primo passo verso una sorta di indipendenza: se Augusta vuole trovarsi deve farlo da sola, deve abbandonare il barcone e inoltrarsi nei budelli di Manaus per accantonare la dottrina e seguire l’unica religione perseguibile in un posto del genere: quella della fratellanza. Diritti è piuttosto bravo a gestire la sua eroina, il tragitto di Jasmine Trinca infatti non sembra destinato a trovare pace e lo spettatore ringrazia poiché ha l’opportunità di assistere ad una terza ed ultima porzione dove il formato panoramico riempie lo schermo e dona immagini da ricordare, non solo: si lambisce una certa ambiguità, tra la pazzia e non, tra il sogno e non, nell’eremo sulla spiaggia Augusta sembra finalmente ritrovare se stessa, salvo poi essere smentiti da quella piroga che placidamente prende il largo.

La molteplicità argomentativa è un punto a favore del film, la narrazione tocca tematiche che, come in un cortocircuito, si scontrano senza far rumore: la fede è un motivo che torna continuamente sotto spoglie diverse e in un pingpong oceanico tra il Brasile e l’Italia (riuscito il dibattito fra il Sud America dove la fertilità esplode e l’Europa che si sostanzia in un’asetticità raggelante), a bilanciare una tale dimensione spirituale c’è la tremenda povertà della favela dove le preghiere non salvano le baracche che crollano nel fiume e dove una promessa di lavoro recide altre promesse, forse, anche, sentimentali.
Ma questi e altri aspetti non possono che essere l’appendice alla ragione portante della pellicola; il regista ce lo indica dal principio con quella sovrapposizione tra la luna e un’ecografia, la maternità è il cuore vibrante declinato in rivoli impreziosenti: a monte il rapporto tra la mamma di Augusta e la nonna malata è freddo e problematico, in Amazzonia un bimbo viene venduto per qualche soldo e quella piccola (e vuota) bara bianca diventa il funerale di un’altra creatura, mai nata.
Apprezzabile, allora, la svolta conclusiva in cui Augusta si abbandona nel ventre della Natura, uno slancio simbolico che partorisce un miraggio materno, momento verticale del film che Diritti lascia sospeso, tappa non ultima né definitiva, ma di mezzo: un giorno devi andare, e andare, e andare ancora.

(una canoa tra le canne di bambù: e il viaggio continua...)

lunedì 8 aprile 2013

Torremolinos 73

La casa editrice ha dei problemi economici, per rimediare il boss Don Carlos intraprende un “businnes” alternativo che avrà il mite Alfredo come involontario protagonista.

È il primo vagito nel mondo della settima arte per questo autore spagnolo di nome Pablo Berger che replicherà soltanto anni dopo con Blancanieves (2012), esordio convincente venato di ironia che pur trattando un tema con cui è facile scottarsi prende bene le misure da qualunque scivolone scurrile tanto che i nudi presenti non hanno alcunché di sensazionalistico o gratuito, semplicemente rientrano nel recinto generale fatto di garbo e finezze che è un piacere cogliere (la scritta “Bergman” sul megafono che Alfredo non abbandonerà mai è una delle tante, deliziose, incomprensioni).
Ma in profondità, sotto la patina di superficie, Berger pone il nodo concettuale della sua opera, uno strato ben mimetizzato nell’ordine degli eventi che una volta snidato garantisce soddisfazione: Torremolinos 73 (2003) è giustappunto il recipiente che raccoglie una delle colluttazioni più evidenti in ambito cinematografico, perché è netto il conflitto tra Don Carlos che rappresenta l’incasso, il guadagno, il tornaconto monetario (punta il mercato scandinavo perché al tempo molto più liber(tin)o: ricordate Svezia, inferno e paradiso del ’68 ? ). Mentre Alfredo impersonifica chi il cinema lo fa per voglia, per passione, per amore (gli appunti presi durante la visione di capolavoroni, l’abnegazione nello scrivere la propria sceneggiatura). Il tamponamento tra questi due modi di intendere il cinema ricalca un po’ ciò che accade oggidì: il soldo vince, il cuore perde.

Appurata questa tenace traccia sotterranea, si registra un successivo punto d’attenzione, un aspetto che attenua la commedia e fa scendere una piccola notte, una camera d’aria di dramma, specificatamente femminile, che sottaciuta per buona parte della pellicola, o, se si vuole, adibita apparentemente ad accessorio, emerge con forza rabbuiante nel finale in cui Berger tira le fila della storia: ognuno dei personaggi in scena ottiene ciò che desidera: Don Carlos il film che vuole lui, Alfredo il ruolo di Regista, e Carmen un figlio. Il sapore dei titoli di coda è però amarognolo, l’etica professionale è schiacciata dal mostro-denaro e come se non bastasse quella personale viene sgretolata, ripudiata, dimenticata per riuscire a coronare un sogno: essere genitori di un film, essere genitori di un figlio, la differenza, per Berger, è praticamente inesistente, ma i sacrifici per giungere a tale traguardo sono dolenti, e fanno male dal ridere, o viceversa.

sabato 6 aprile 2013

Csillogás

Con Csillogás (2008) Benedek Fliegauf ritorna all’origine: come in Van élet a halál elött? (2002) il documentario fa rima con intervista, ma questa volta l’oggetto di studio non è la scienza antiortodossa di uno psichiatra originale bensì un argomento molto più alto, insondabile, da far tremare le gambe: il mistero dell’oltrevita. Il regista magiaro mette di fronte alla mdp tre persone normalissime accomunate dalla stessa incredibile esperienza, un viaggio andata e ritorno dall’aldilà raccontato con grande partecipazione emotiva da parte del trio (due uomini e una donna) il quale pur narrando situazioni “già sentite” come manifestazioni di luce (“csillogás” significa scintillio), presenza di conoscenti stretti defunti che accompagnano il trapasso, sensazioni di calore, amore, accoglienza e improvvisi poteri gnostici, risulta sincero e capace di tenere elevato il livello dell’attenzione.

Il tema è evidentemente così imperscrutabile e influenzato da variabili determinanti (non si fa nessun riferimento alla religione, elemento che plausibilmente gioca un ruolo importante nella mente di coloro che vivono tali passaggi, parere personale ovviamente) che un film di sessanta minuti non può avere le pretese di sviscerarlo con perizia, anche perché nessun essere vivente di questo pianeta riuscirebbe a farlo, Fliegauf comunque mette sul piatto delle testimonianze che per il momento sono il massimo dell’empirismo a cui possiamo tendere: non ci sono risposte, germinano al contrario gli interrogativi, domande che in sostanza scopriremo solo… morendo.

mercoledì 3 aprile 2013

Su Re

Nuvole nere scorrono sui picchi acuminati delle montagne, a valle, tra i ciottoli e i cespugli bassi, figure avvolte in tuniche nere schiaffeggiate dal vento osservano un uomo che soffre impotente inchiodato ad una croce. Non è il Golgota ma il Supramonte, come Gesù, Giuda, Pietro, Maria e gli apostoli non provengono dalla Palestina ma dalla Sardegna e non parlano l’aramaico bensì il dialetto sardo. Il progetto di Giovanni Columbu, che ha avuto una gestazione piuttosto lunga a causa della complessità del soggetto e delle problematiche relative al reperimento dei fondi, è un progetto che vale perché simbolo di un cinema nostrano e sotterraneo per nulla mansueto, aspro in ogni suo aspetto: Su Re (2012) è film che innanzitutto si prende l’onere di raccontare il Vangelo, e lo fa senza intenti parabolici ma solo perché, parole di Columbu (link), la storia in sé è bella e forte e merita, anche oggidì, di essere proposta ancora una volta. Narrare il risaputo attraverso una forma innovativa: al pari di Arcipelaghi (2001) l’architetto nuorese scompagina la linearità temporale, spezzetta gli accadimenti e li rimescola in un flusso pieno di passi in avanti controbilanciati da salti all’indietro; dal momento della crocifissione, il flashback (sorprendente quello di Maria che rivede davanti a sé i tre Magi) diventa la benzina che esplora in modo sconnesso i celebri passi biblici, e allora per noi tutto diventa un cupo viaggio tra barbe ispide e rughe che si direbbero centenarie, storditi da una lingua estranea, traumatizzati da un Cristo con il volto grossolano e dolente, quindi terreno, un Cristo lontano ere ed ere dalla salvezza.

Su Re ferisce per la sua rivisitazione conficcata in un humus che sebbene non appartenente alla vera storia è capace di renderla totalmente credibile, anzi, la rende più credibile di qualunque altra patinata messinscena della Passione dove lo strazio di Gesù è gratuitamente ingigantito, e Columbu, consciamente, ha compreso che l’universalità del sacrificio può avere anche cornice e interpreti avulsi all’etichetta; non importa che il cinema segua pedissequamente le sacre scritture, le dottrine, la catechesi, ciò che importa è che abbia un cuore pulsante fatto di intraprendenza artistica dove la primordialità si istituisce in un’evoluzione che non abbandona le radici, uno sguardo del presente (e del futuro) su ciò che immutabile rimane.

lunedì 1 aprile 2013

Found Memories

Figlia d’arte, Júlia Murat ha tratto ispirazione per Historias que so existem quando lembradas (2011) una decina di anni fa, quando grazie ad un sopralluogo relativo alla realizzazione di un film della mamma si imbatté in un piccolo villaggio brasiliano di nome Fort Coimbra abitato esclusivamente da persone anziane. Da questo spunto la giovane regista carioca parte per tematizzare l’universale attraverso il particolare: la prima mezz’ora esplicita con fare documentaristico la routine esistenziale del paesino e di chi lo abita, i gesti si ripetono di giorno in giorno tramite un ritualismo che non conosce alterazione: dalla sveglia di buona mattina (va mirata e rimirata la fotografia al lume di lanterna in casa di Madalena) alla scrittura della lettera d’amore che ovviamente andrà a fare compagnia alle sue simili accumulatesi nel tempo; anche i rapporti umani e le parole sono cristallizzate in un loop eterno, ogni conversazione con l’amico venditore di caffè, ogni omelia del prete, ogni occasione prandiale con i compaesani non sfugge mai dalla reiterazione, dall’essere fac-simile senza alcuna discontinuità, ma di tutto ciò Madalena e soci non paiono curarsene, la bolla temporale in cui sono racchiusi li ha allontanati dalla caducità della vita (lo specchio incrostato di sporco), sono sospesi, sono in un purgatorio di infinita transizione, e una volta che Murat riuscirà a prendervi per mano (ci vorrà poco, garantito) la penetrazione in questo mondo così reale e altrettanto così surreale si profilerà come un’esperienza cinematografica maiuscola.

C’è della magia qui, c’è la capacità di far convivere un ritratto antropologico pieno di uomini e donne dai volti archetipici (quando un semplice primo piano sa dire quello che c’è da sapere) con l’incanto fiabesco, márqueziano, sottolineato da particolari che elevano il racconto come l’immagine di un treno arrugginito, oppure quella di un cimitero inaccessibile che rimarca la netta distanza con la Morte, e a ciò si lega l’elenco dei defunti sul muro della chiesa fermo dal ’76: “ci siamo dimenticati di morire”. Inevitabilmente l’introduzione di Rita nel microcosmo altera gli equilibri, la ragazza diventa una variabile incontrollabile (la danza sfrenata nel buio) dentro ad un sistema codificato, Murat mette in piedi uno scontro ancestrale tra giovinezza e vecchiaia che però non conosce collasso, al contrario si fa crasi, dolcemente, in un confronto fra alterità che con grandiosa nostalgia si infiltrano reciprocamente (d’altronde il finale suggerisce questo), trovano confidenza, sostegno, libertà (la morte a questo punto è il liberarsi dal fardello dei ricordi, mettersi a nudo), sanciscono un nuovo inizio. Le fotografie, motivo portante della pellicola, che Madalena custodisce in casa e che appartengono a gente sconosciuta, sono un mausoleo della reminescenza, custodia di una memoria collettiva, il che appaia Found Memories ad un film come Tabu (2012), due esempi di un cinema che espone la propria modernità volgendo lo sguardo verso il passato, innestandolo di soluzioni visive votate all’integrazione narrativa (qui abbiamo le visioni degli pseudo-dagherottipi di Rita) senza mai sminuire la malinconia dei tempi che furono.

Stupisce l’alta professionalità con cui Júlia Murat, classe ’79, incastona ogni sequenza nel firmamento artistico di chi, seppur senza troppa esperienza sul campo, ha già raggiunto la consapevolezza dei propri mezzi, e i risultati oltre che davanti ai nostri occhi restano impressi nelle corde interiori, quelle che sintonizzandosi sulle frequenze filmiche vibrano di pura e cristallina emozione cinefila. Per chi scrive ci troviamo di fronte ad una versione edulcorata di Japón (2002), nel senso che la prospettiva con cui si guarda alla vita e alla morte possiede una delicatezza struggente, un sapore di rasserenante mestizia, un cortocircuito affettuoso tra la Fine e il Principio per una categoria di cinema in via d’estinzione, salvaguardiamola e facciamola nostra: Historias que so existem quando lembradas è già uno dei film dell’anno.