Film molto atteso questo Blancanieves perché come molti sanno il regista Pablo Berger ha deciso di intraprendere l’anacronistica strada del cinema muto. Sebbene l’anno di produzione sia il 2012, Berger aveva in cantiere la realizzazione dell’opera già nel periodo immediatamente successivo al valido debutto (Torremolinos 73, 2003), purtroppo per lui alcuni problemi di ordine finanziario hanno procrastinato l’uscita nel tempo al punto che un altro regista, in quel mentre, se ne è spuntato con una simile idea di base e con un simile compimento, e per Berger è stato un colpo durissimo perché The Artist (2011) di Hazanavicius ha fatto letteralmente il botto giungendo quasi a sorpresa nel gotha del cinema commerciale, ne consegue che adesso, in ogni recensione di Blancanieves, non mancherà mai un paragone con il film vincitore di cinque premi Oscar il quale essendo arrivato prima porterà ad additare il lavoro spagnolo come un prodotto subordinato a quello transalpino. E in effetti il comparto formale non può che essere sovrapposto a The Artist poiché anche Berger ripercorre per filo e per segno le costrizioni del muto, punta sulla mimica attoriale, enfatizza con le musiche (pare che in alcune proiezioni siano state suonate dal vivo proprio come si faceva una volta), e si permette, al pari della pellicola francese, di giochicchiare col sonoro instillando quindi gocce di modernità.
Ciò che segna un distacco tra i due autori è che Berger reinterpretando la fiaba di Biancaneve fornisce un’ennesima conferma del cinema come evidenziatore mitopoietico. Il regista nato in provincia di Bilbao utilizza la favola soltanto a racconto inoltrato, si serve di essa per fornire una possibilità di rivalsa alla povera Carmencita ma non ne segue pedissequamente la natura, anzi ne stravolge per buona parte l’essenza cancellando la figura del principe azzurro e negando di conseguenza la possibilità di un risveglio post-mela avvelenata [1]. Il fatto da notare è che la leggenda, il mito, è creato dalla consapevolezza dei protagonisti sullo schermo (sono i nani, toreri e non minatori, che decideranno di chiamare Carmencita Blancanieves) sottolineando la tendenza concreta dell’uomo a mitizzare la realtà (e, ad esempio, lo farà anche l’approfittatore barbuto che attraverso il mito lucrerà sul sonno di Carmencita). Per chi scrive, dunque, non si tratta esattamente dell’ennesima versione di Schneewittchen perché ogni personaggio è dotato di onniscienza e tutti sanno che Carmencita non è affatto Biancaneve. Ritengo però che l’aver spinto così tanto sulla favola di riferimento (a partire dal titolo!) abbia creato dei meccanismi controproducenti perché ognuno di noi cercherà di valutare il film con uno scandaglio biancanevistico concentrandosi su questioni forse nemmeno troppo importanti (mi vien da dire che l’introduzione della mela è troppo dipendente dalla fola e per nulla giustificata nel momento della corrida) e lasciandone da parte altre che meriterebbero approfondimenti (il legame padre-figlia, l’identificazione toro-matrigna).
Ma è meglio non girare troppo intorno a ciò che più voglio rimarcare. Per farlo è bene citare da qui le parole dello stesso Berger:
La pellicola va in quella direzione: parla delle mie ossessioni, tematiche e visive. Il mio obiettivo come narratore è di sorprendere lo spettatore, è l'unica regola che seguo. Jean-Claude Carrière - sceneggiatore di Buñuel e Milos Forman, tra i tanti - dice lo stesso: se stai scrivendo una sceneggiatura e vedi che una sequenza è troppo logica o che lo spettatore scopre quello che succederà dopo, cambia strada… però rimani verosimile.
Ecco, se c’è una cosa che Blancanieves non riesce a fare è sorprendere lo spettatore (ad esclusione del finale) e questo perché il funzionamento narrativo è di una schematicità lapalissiana; lasciamo da parte le opposizioni evidenti tra chi è buono e chi non lo è, e concentriamoci sull’andatura algoritmica che illustrate le angherie seriali della matrigna non lascia che una prevedibile rivincita da parte di chi ha subito tali efferatezze. Questo, sarà banale dirlo, non giova granché nella visione (che in quanto ad estetica può far la voce grossa) visto l’inalveare del regista in binari agevoli e facilmente intuibili.
Sono dell’avviso che superata la fascinazione del “film muto” riproposto nella contemporaneità ci sia necessariamente bisogno di fornire una carica innovativa che dia veramente un senso odierno, non che Berger si astenga dal tentativo (i citati espedienti sonori e altre soluzioni visive interessanti) ma un po’ il canovaccio elementare e un po’ l’ostinata appropriazione fiabesca non gli permettono di appaiarsi a chi sa davvero essere attuale pur maneggiando il passato, vedi Guy Maddin o il coevo Tabu (2012).
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[1] Bisogna ricordare che nella fiaba originale dei fratelli Grimm il finale non prevede la questione del bacio da parte del principe ma ha tutt’altra risoluzione.
non lo conosco,come tanti che recensisci, e come sempre mi hai incuriosito..me lo cerco..ciao carissimo..
RispondiEliminaMi ha un po' deluso. Avevo letto critiche esagerate che gridavano al capolavoro, mi è sembrato soltanto un film piacevole. Uno di quei film che ti dimentichi di aver visto dopo pochi giorni.
RispondiEliminaNon nego anche da parte mia un pelo di delusione, intanto però è stato insignito di ben 10 Goya.
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