lunedì 8 aprile 2013

Torremolinos 73

La casa editrice ha dei problemi economici, per rimediare il boss Don Carlos intraprende un “businnes” alternativo che avrà il mite Alfredo come involontario protagonista.

È il primo vagito nel mondo della settima arte per questo autore spagnolo di nome Pablo Berger che replicherà soltanto anni dopo con Blancanieves (2012), esordio convincente venato di ironia che pur trattando un tema con cui è facile scottarsi prende bene le misure da qualunque scivolone scurrile tanto che i nudi presenti non hanno alcunché di sensazionalistico o gratuito, semplicemente rientrano nel recinto generale fatto di garbo e finezze che è un piacere cogliere (la scritta “Bergman” sul megafono che Alfredo non abbandonerà mai è una delle tante, deliziose, incomprensioni).
Ma in profondità, sotto la patina di superficie, Berger pone il nodo concettuale della sua opera, uno strato ben mimetizzato nell’ordine degli eventi che una volta snidato garantisce soddisfazione: Torremolinos 73 (2003) è giustappunto il recipiente che raccoglie una delle colluttazioni più evidenti in ambito cinematografico, perché è netto il conflitto tra Don Carlos che rappresenta l’incasso, il guadagno, il tornaconto monetario (punta il mercato scandinavo perché al tempo molto più liber(tin)o: ricordate Svezia, inferno e paradiso del ’68 ? ). Mentre Alfredo impersonifica chi il cinema lo fa per voglia, per passione, per amore (gli appunti presi durante la visione di capolavoroni, l’abnegazione nello scrivere la propria sceneggiatura). Il tamponamento tra questi due modi di intendere il cinema ricalca un po’ ciò che accade oggidì: il soldo vince, il cuore perde.

Appurata questa tenace traccia sotterranea, si registra un successivo punto d’attenzione, un aspetto che attenua la commedia e fa scendere una piccola notte, una camera d’aria di dramma, specificatamente femminile, che sottaciuta per buona parte della pellicola, o, se si vuole, adibita apparentemente ad accessorio, emerge con forza rabbuiante nel finale in cui Berger tira le fila della storia: ognuno dei personaggi in scena ottiene ciò che desidera: Don Carlos il film che vuole lui, Alfredo il ruolo di Regista, e Carmen un figlio. Il sapore dei titoli di coda è però amarognolo, l’etica professionale è schiacciata dal mostro-denaro e come se non bastasse quella personale viene sgretolata, ripudiata, dimenticata per riuscire a coronare un sogno: essere genitori di un film, essere genitori di un figlio, la differenza, per Berger, è praticamente inesistente, ma i sacrifici per giungere a tale traguardo sono dolenti, e fanno male dal ridere, o viceversa.

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