Il Sundance e la Berlinale hanno decretato i propri vincitori. Vediamo su chi e su che cosa sarebbe interessante mettere le mani.
Dall’altra parte dell’oceano a trionfare è stato un film drammatico basato sulla storia vera di un ragazzo ucciso da un agente di polizia l’1 gennaio del 2009. Il titolo è Fruitvale (nome della stazione ferroviaria in cui è avvenuto il delitto) ed è diretto dal debuttante classe 1986 Ryan Coogler a cui auspichiamo un successo pari a quello di Benh Zeitlin che vinse lo stesso premio un anno prima. Nella sezione documentaristica occhio a Blood Brother che sulla carta non accende particolari entusiasmi (un americano si reca in India e sposa la causa sociale) ma che è stato giudicato come miglior doc U.S. Il dirimpettaio della stessa categoria, ovvero il miglior doc non-U.S., è il cambogiano A River Changes Course in bilico fra le tradizioni del Paese e i problemi che affliggono quest’ultimo. Taglio politico per il coreano Jiseul (foto sopra), che si è aggiudicato l’onorificenza come miglior film non statunitense, in cui viene narrata la ribellione del ’48 da parte degli abitanti di un’isola vulcanica chiamata Jeju-do. Opera prima, bianco e nero. Segnamocelo.
Nella nostra cara Europa Wong Kar-wai ha deciso di incoronare una cinematografia che negli ultimi anni è una realtà che reclama l’attenzione di tutto il continente: sebbene Child’s Pose appaia, al solo leggere della trama, un pochino fiacchetto ci riserviamo di giudicare perché parlare senza aver visto è troppo facile. L’Orso d’Argento, dopo due anni di dominio ungherese (Tarr e Fliegauf), è invece andato a Danis Tanović e al suo An Episode in the Life of an Iron Picker. Miglior sceneggiatura a Closed Curtain di Panahi che continua a lottare con noi, mentre Côté (tenete sott’occhio questo canadese) con Vic and Flo Saw a Bear ha vinto il premio Bauer che nell’edizione precedente andò a Miguel Gomes. Dumont (Camille Claudel, 1915) è rimasto a secco, era successo anche a Cannes per Hors Satan, quindi l’assenza di riconoscimenti berlinesi non inficia assolutamente niente. Idem per l’ultimo capitolo della trilogia di Seidl: Hope. Infine appuntatevi questo titolo: The Act of Killing.
Di tutto questo vedremo quanto giungerà nelle sale italiane. (domanda retorica, lo so)
L'ho segnato, grazie. The act of killing sembra un documentario davvero importante. Crudele, ma necessario. Soprattutto qui in Italia, dove i crimini di Suharto sono passati inosservati.
RispondiEliminaL'avevo già adocchiato, poi alcune impressioni post-Berlino hanno confermato. Anche la media di IMDb invoglia.
RispondiEliminaHai avuto modo di vedere l'ultimo di Dumont? Qui a Torino lo danno in settimana, mi sa che vado a spararmelo in solitaria.
RispondiEliminaNo perché non c'è possibilità di poterlo vedere per ora... io fossi in te ci andrei, e anche a velocità sostenuta.
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