Chi ha solo il proprio lavoro, chi ha perso la patente, chi ha tentato di suicidarsi, chi ha debiti insolvibili, chi subisce e ne porta i segni inequivocabili su di sé.
Binomio da cui ci si poteva attendere buone cose quello vede l’incontro tra dramma scandinavo, per Happy End (2011) ci posizioniamo in Svezia, e la casa di produzione Zentropa che, e lo si può notare anche senza una visione capillare della sua prole, ha un occhio di riguardo verso le relazioni umane, o forse è il contrario: è il cinema di questa fredda porzione geografica che vuole sondare il ring solitario delle persone. Dove sta la verità non si sa, di certo la fatica di Björn Runge risponde all’identikit che ci si aspettava perché mostra quelle celle frigorifere in cui un’umanità variegata si trova a vivere; l’anestesia dei sentimenti è farcita con solitudine, amarezza e disincanto, introiezioni che vengono filtrate dal setaccio del sarcasmo, quel velo (qui molto sottile ad essere sinceri) di tragica ironia che viene utilizzato spesso in queste pellicole nordiche.
La coralità iniziale è apparentemente disarmonica visto che la storia tripartita viaggia su binari individuali, poi il regista compatta con piglio accettabile i vari rigagnoli giungendo a conclusioni dal gusto forte, o almeno abbastanza: una mamma che paga una ragazza per stare col proprio figlio infelice, e di conseguenza tale ragazza che scende a compromessi bassissimi pur di racimolare qualche soldo, sono soltanto due pennellate di un quadro che sotto la patina borghese cela croste di muffa grandi così. Ma credo che, anche solo leggendo codeste righe, il tono da appendice, ovvero la ripresa di situazioni trite e ritrite, sia il piccolo cancro che ammorba il film; non solo: dato che ormai viviamo in un mondo dove tutto è già stato raccontato, l’umile pretesa è quella di venire spiazzati, sorpresi, o per lo meno invogliati a proseguire, ciò non accade, e, al contrario, più si procede più le fondamenta tremano: c’è poco feeling con i personaggi (il fidanzato indebitato è una macchietta insopportabile), e di riflesso manca lucentezza alla vicenda.
Runge piazza qualche preziosismo degno di interesse, l’occhio ludico che si diverte a riprendere i visi degli attori negli specchietti dell’automobile ha un suo perché, come il pestaggio nascosto dal tronco di un albero. Il tutto è poi cucito da una messa in serie che ha reminescenze vontrieriane (la trilogia del cuore d’oro) in cui vengono letteralmente eliminati dei fotogrammi dalla pellicola. Accorgimenti gradevoli che non compensano un’opera vuota in partenza e svuotata dalla derivazione susseguente, il classico esempio di cinema che vorrebbe far male e alla fine risulta innocuo.
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