Il corteggiamento tra
Denis Côté e il documentario si protrae fin dagli inizi
della carriera dove ad un impianto di finzione veniva iniettata una
ricerca di realismo tangente il contemplativo; c’è stato in
passato un esempio di genere documentaristico come Carcasses
(2009) che per buona parte della sua durata eludeva ogni vincolo
narrativo, ma è con Bestiaire (2012) che Côté
fornisce la prova maggiormente anti-fiction dell’intera
filmografia. Al contempo risulta difficile intendere questo film come
un normale studio zoologico su pellicola, al limite può
apparentemente mimetizzarsi nella categoria (in fondo quel che si
vede è una lunga carrellata su svariati esemplari di animali),
ma è indubbio che non troverebbe mai asilo sul canale di
National Geographic perché Côté non ha fini
divulgativi o educativi, non si tratta di un lacerto animalista, è
piuttosto una digressione tematica che rispecchia una coerenza
autoriale cominciata con Les états nordiques (2005).
Il cinema di Côté è infatti e prima di tutto un
cinema etologico, analisi comportamentale dell’uomo posto
nell’ambiente di appartenenza (sempre la provincia quebechiana)
con il quale si rapporta spesse volte in modo problematico, il tutto
approcciato con un distacco quasi hanekiano. Qui l’oggetto
d’attenzione non è più l’Uomo bensì
l’Animale, c’è quindi una sovrapposizione evidente che non
coincide in modo perfetto perché gli animali di Bestiaire
non si trovano nel loro habitat naturale e tale aspetto rende ancora
più articolato il film.
Vero che i connotati da
“denuncia di sfruttamento animale da parte dell’uomo” non
appartengono a Bestiaire, però Côté
non disdegna di posizionarsi dentro le gabbie di zebre o leoni che
scalpitano come matti nel tentativo di guadagnarsi la libertà.
Tali sequenze hanno acceso nel sottoscritto una lampadina
interpretativa che non ha pretese di esaustività: l’assistere
ad un leone che sbatte violentemente le zampe sulla porta di una
cella mi ha subito riportato alla mente un detenuto dietro le sbarre
di una prigione. L’operazione di traslazione uomo -> animale
risulta una strada percorribile (nell’incipit un cerbiatto
imbalsamato è come una modella per disegnatori) e in buona
sostanza fortifica il concetto di cinema di Côté
ancora una volta silente biologo. Praticamente nell’osservare il
musetto curioso di uno struzzo, l’inespressività di un
bufalo, il disorientamento di una iena, la goffa statuarietà
di una giraffa, il relax di uno scimpanzé, sembra rivedere
l’estraneità di persone colte di sorpresa da una cinepresa o
incuriosite da essa rendendo Bestiaire una sorta di specchio
che ci riflette sotto altre spoglie, superficie non priva di
una strisciante inquietudine che sta lì davanti a noi,
imperturbabile.