martedì 24 maggio 2016

Poyraz

Anche Belma Baş, come il Reha Erdem di Beş Vakit (2006) o il Selim Güneş di White As Snow (2010), ci riporta ad una Turchia feudale, arcaica, distaccata dalla contemporaneità e ancorata alle proprie tradizioni, forme ritualistiche dall’immutabile portata. In Poyraz (2006), nel concentrato d’una dozzina di minuti che va a costituirlo, il cerimoniale quotidiano lo si può intuire: la madre indaffarata a trattare il latte con un aggeggio su cui il bimbo balza a cavalluccio ricevendo l’ammonizione del genitore il quale gli ricorda che non è più così piccolo, un gesto semplice incastonato nella routine famigliare (a proposito: una piccola chiocciola apre il film: qui si racconterà di un focolare domestico sembra premettere la Baş, con lo scorrere lento e paziente della vita), tassello inessenziale come la preparazione della cena, ingranaggi di un meccanismo effettivamente più grande che ha come principio inviolabile quello della ciclicità.

Perché sotto sotto, a prescindere dalla durata dell’opera che ci viene incontro, c’è un certo cinema che prova a raccontarci, in ogni sua manifestazione, quello che più ci interessa, anche a nostra insaputa, è una questione di vita e di morte d’altronde, e sebbene spesso si tenti di ornare la faccenda con orpelli e diversivi, il focolaio che accende ogni storia volge l’attenzione all’alfa e all’omega dell’esistenza, testacoda capaci di dare pregni frutti, e Poyraz è lì a ricordarcelo, in miniatura, sottovoce, placidamente, con pudicizia verso la Morte, senza riuscire a trasmettere davvero lo sconosciuto Significato (sembra un ossimoro, e in effetti lo è), ma comunque impegnandosi rispettabilmente nel tentativo, rimanendo voce nel coro, inavvertibile apoftegma che scorre davanti ai nostri occhi, come un vecchio bastone bitorzoluto portato via dalla corrente fluviale.

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