mercoledì 25 maggio 2016

Cavallo Denaro

Cavalo Dinheiro (2014) è un altro film enorme di Pedro Costa, è la possibilità di un cinema ulteriore che argomenta la propria tesi trovando un miracoloso equilibrio tra la completa astrazione e la totale aderenza realistica. È più di un miracolo: se osserviamo il movimento concettuale del regista portoghese veniamo a conoscenza di un progetto autoriale che nel corso degli anni ha saputo definzionalizzarsi arrivando in un territorio, quello di questo film, che è dentro ma anche oltre la realtà, un’opera da eiaculazione celebrale che abbraccia teneramente tutto il corollario di umanità marginale visto negli esemplari precedenti: da Ossos (1997), oggetto con ancora elementi di finzione che ci calava per la prima volta nel degrado degli immigrati a Lisbona, sostando poi dentro In Vanda’s Room (2000), monumento cinematografico che ha dato nuove coordinate visive nello spazio cinema, per arrivare in Colossal Youth (2006), epitaffio di un quartiere, morte dell’umanità, tomba artistica. In questa silente indagine Costa ha via via estromesso le componenti del racconto più marcate affinando uno stile che è sì narrativo ma che sa tangere la vera realtà, ciò non può che essere motivo di conforto poiché è in siffatti termini che il cinema, a mio avviso, è in grado di esprimere un preciso potenziale, non c’è bisogno di attorialità né di sceneggiat(ur)e coerentemente razionali, si può e si deve lavorare sul reale, unico ring che permette una visione ancora virginale, intatta.

Non che Cavalo Dinheiro abbia attinenze nel campo documentaristico, d’altronde è lampante lo studio che Costa compie sul piano ottico dimostrandosi uno dei migliori sguardi nel saper trattare i corpi dentro e fuori dal buio (cfr. il capolavoro Ne change rien, 2009), tuttavia questa intensificazione non intacca il nostro concetto di realismo, è come se l’ospedale in cui Ventura è ricoverato possa essere plausibilmente così, il “classico” luogo-non-luogo immerso in una tenebra uterina dove uomini nascono già morti. Parimenti Costa salpa verso altri pianeti attuando una magnifica congiunzione tra il mezzo cinema e la mente di un anziano malato, Ventura, altro essere costiano dopo Vanda Duarte martire dello sfacelo, che riflette la condizione geografica dove lui, insieme a molti altri capoverdiani, ha vissuto per anni: barrio de Fontainhas; il punto è che questo povero quartiere, così come Colossal Youth ci aveva permesso di vedere, non esiste più, e di riflesso non esistono più nemmeno le persone che vi abitavano. Probabilmente nemmeno Ventura esiste, ectoplasma di se stesso che genera altri ectoplasmi, che fonde il tempo e lo spazio, che collassa, che muore e risorge, Cavalo Dinheiro è questo, un consesso di fantasmi, di ricordi, un’elegia dopo l’elegia (l’incipit mostra delle foto in b/n del passato, come ovali nelle lapidi), sicuramente una delle opere-cervello maggiormente memorabili degli ultimi anni poiché la lettura della mente di Ventura che si dà attraverso il cinema non è penetrazione bensì invasione, come un liquido nero il flusso di persone e situazioni che sgorgano dal poveretto, oltre che generare un senso di profonda e smisurata pietà verso lui stesso, rompe gli argini della fruizione invitandoci ad un terso abbandono sensoriale in questo purgatorio di poveri spettri.

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