Produttore di Satantango (1994), dialoghista in Le armonie di Werckmeister (2000), fonte di ispirazione per un giovane autore come Benedek Fliegauf che gli dedicò il suo Rengeteg (2003), György Fehér, deceduto nel 2002, è stato anche regista e sebbene il curriculum sia piuttosto esiguo ciò che rimane oggi del cinema che ha proposto è una versione satellitare del cinema di Béla Tarr, il che lo rende immediatamente degno di tutte le attenzioni possibili. Gli unici due lungometraggi di Fehér di cui si ha notizia (su IMDb sono elencate delle opere antecedenti ma tutte per la tv) purtroppo non hanno mai avuto una distribuzione commerciale (non ho trovato notizie in merito ma è probabile che Twilight non sia nemmeno uscito in sala), ergo la reperibilità di Szürkület (1990) e di Szenvedély (1998) si riduce esclusivamente alla Rete che ci offre due copie in condizioni non ottimali, è un vero peccato ma non c’è da disperarsi: anche se la qualità audio/video non è eccellente, quando la raffinatezza, la stoffa pregiata, la possanza artistica ci sono, allora anche le defezioni materiali soccombono sotto i colpi di un cinema che è immersione artistica, esperienza sacra, liturgica, cerimoniale.
Ispirato dal libro di Dürrenmatt La promessa (da cui Sean Penn ha tratto l’omonimo film), Szürkület è pellicola dall’impianto noir con delitto (il cadavere di una bambina ritrovato in un bosco), con sospettato (un venditore ambulante che per primo ha denunciato alla polizia il corpo della vittima), con procedure investigative (le indagini dei due poliziotti), ma, come il sottoscritto auspicava prima della visione, da tale genere si distacca praticamente da subito rimettendosi un po’ a quello che sarà L’uomo di Londra (2007), ossia un’investigazione che affonda nell’abisso (umano, ça va sans dire), che mette in scena un tipico groviglio giallistico ma che ne lascia sospeso il corrispettivo sbrogliamento preferendo i lidi mentali di chi è sulle tracce dell’assassino, ed è qui che il tipico whodunit si sfalda inesorabile: dopo il suicidio del principale indiziato Fehér riesce ad ammantare di colpevolezza qualunque personaggio sullo schermo, ogni confronto si carica di un’ambiguità disorientante: “sono troppi gli uomini di quel tipo che soltanto per caso non uccidono”, nelle parole del misterioso professore è concentrato il nucleo nascosto di questa caccia all’uomo, di questa caccia verso se stessi.
Tecnicamente ineccepibile, la sintassi filmica si costituisce di pianosequenza in pianosequenza, un meccanismo che Tarr aveva iniziato a proporre con Perdizione (1988) e che successivamente diverrà proprio il marchio stilistico per eccellenza; Fehér dal canto suo sciorina un susseguirsi di traiettorie fluide, prospettiche, penetranti (che ci fanno penetrare dentro, nella nebbiosa campagna ungherese, nell’umidità di un viottolo sterrato, in un asettico commissariato, in un casolare sperduto chissà dove) che mutano il “thriller” in qualcosa di metafisico, perennemente in sospensione, che oscilla come uno spirito tra il sospetto e l’ossessione, tra le deboli prove e l’ombra sfuggente di un criminale inafferrabile, perché in fondo ogni crime dovrebbe fare così: disinteressarsi del killer e del movente, lasciare da parte la risoluzione dell’inghippo per gettarsi all’interno della fallibilità di quello che dovrebbe essere il Bene, del suo essere nudo di fronte alla crudeltà, dell’impossibilità di riuscire a proteggere chi ne avrebbe bisogno (la splendida immagine dei villici in attesa di una risposta). Ecco perché Szürkület è un grandissimo film lontano galassie dal cinema mite che spopola, screziato da un ipnotico motivo musicale, l’incredibile forza che ha nell’invadere quietamente lo spettatore lo fa gravitare, con ben pochi dubbi, fra le alte sfere, quelle dove placidi fluttuano i capolavori.