Ho
visto Phantasiesätze
(2017) una volta, poi un’altra, dopodiché, come di consueto, mi
sono messo a cercare qualche informazione nel Web, su IMDb una
sinossi (a quanto si legge firmata proprio da Dane Komljen in
persona, link) racconta di un’epidemia e di città trasformate da
essa, altrove si citano Walter Benjamin e Černobyl’,
in una pagina di MUBI (altro link) è di nuovo lo stesso Komljen
ad introdurre la sua opera riferendosi ad un gioco di parole
chiamato, appunto, “Fantasy Sentences”, infine ho riaperto il
file video e ho skippato in avanti per poi tornare indietro, più
volte, in un rimpallo illogico, cieco, assetato. Anche così,
nell’apparente incomprensibilità, si consuma una visione piena,
per niente frontale, ma vibrante, oltre il visibile. Non c’è di
che stupirsi, Komljen aveva già dimostrato di possedere una valida
idea di cinema con All the Cities of the North (2016)
ed il corto successivo, che a tratti pare esserne una ramificazione,
prosegue nella medesima scia fatta di un metodo documentaristico
aperto a suggestioni che, letteralmente, lo rivoltano, qui ad esempio
si affaccia l’impressione che l’evento principe, il centro oscuro
di tutto, non venga mostrato, tra il passato ed il futuro sussiste
uno scarto dato dalle immagini, prima c’è l’uomo, dopo non c’è
più. L’omissione è un fantasma che brancola tra le fronde degli
alberi, una nuova forma assunta dalle memorie perdute.
Strutturalmente
Phantasiesätze ha una
configurazione che vuole suggerirci qualcosa: da una voce
archeospaziale che descrive la mutazione di un uomo in una bestia si
genera un flusso di filmati casalinghi che inizialmente non ha alcun
audio, l’inserimento di una pista sonora avviene quando ci si
sposta nel territorio boschivo dedito a spensierati picnic e bagni
nel lago, l’estromissione dell’essere umano aumenta i decibel: si
alza il vento, comincia a piovere, il film si adombra e senza che il
sottoscritto riesca a spiegarne il motivo una minaccia monta
lentamente, verso gli otto minuti scorgiamo il primo edificio
abbandonato, a otto e cinquantadue lo strappo totale: dalla bassa
qualità all’alta definizione del digitale, un gatto si lava le
orecchie (è lo stesso che abbiamo visto prima?... cos’è prima?) e
la sottile angoscia prende piede per mezzo di un accompagnamento
musicale che va in crescendo, una potentissima distorsione elettrica
intensifica lo spaesamento visivo: davvero, ancora una volta, grazie
a dio: cosa e/o chi stiamo guardando? Fino all’approdo nel quadro
nero, meta di una possibile transizione dall’essenza (la felicità,
i figli, i padri, le madri) all’assenza (forse, lo scheletro di un
grosso telo da proiezione ormai ridotto in brandelli). Dane Komljen è
tassativamente da seguire.