giovedì 12 luglio 2018

Rey

La prima folgorante mezz’ora funge da apripista ad un corpo centrale non meno sconquassato da allucinazioni e peripezie varie fino ad un’ulteriore mezz’ora, ’sta volta conclusiva, che trasfigura il film in un crescendo psichedelico: bello, bellissimo, Rey (2017) riscrive a modo suo un personaggio storico non passato ai libri di storia, tal Orélie-Antoine de Tounens, francese, avvocato, autoproclamatosi Re di in uno stato immaginario vicino al Cile, ed è una riscrittura pregevole che attinge a registri diversi donando un respiro veramente ampio e, come accade sempre in casi del genere, libero, affrancato dalle esigenze narrative e quindi piacevolmente inselvatichito dall’estro creativo del demiurgo Niles Atallah, solo al secondo lungometraggio, ma con le idee già chiare, anzi annebbiate, confuse, ma di un caos che smuove, che ci fa dire oh come è vivo questo cinema. Si diceva che il prologo incanta, con un sottofondo sonoro che ci ricorda la matericità (passatemi il termine) della pellicola, lo sfrigolio ed il farfallio a rimembrare un’epoca passata, quasi mitica, al pari di quella dei conquistadores (anche se il signor Tounens arriva fuori tempo massimo rispetto ai suoi predecessori), e poi lo svincolo weird, destabilizzante, non certo privo di fascino: la ricostruzione di un processo dove accusa, corte ed imputato indossano maschere di cartapesta, lo Stato (colonizzatore, quindi spagnolo) contro il sogno, o la follia, del singolo, c’è qualcosa che richiama a concetti più universali? Non è da escludere ma comunque è troppo attraente questa storia donchisciottesca per lanciarsi in paralleli interpretativi, il lavoro di Atallah spinge dentro la vicenda in sé, decostruisce, destruttura e destoricizza fino a rappresentare il delirio di un uomo solo.

Se vogliamo buttare giù qualche nome c’è una vaga sintonia con El Movimiento (2015), location sudamericana e approccio laterale alla Storia, più defilato potrei citare Jauja (2014) e ancor più nelle retrovie le manifestazioni artistiche di Albert Serra, infine, ma giusto per la presenza di “animaluomini” potrebbe starci un rimando a Marquis (1989), Rey però ha uno statuto autoriale di prima fascia che si fa forte della sua indipendenza estetica, Atallah, più che regista videoartista impegnato su diversi fronti, è riuscito a tradurre nel film la febbrile ricerca di una sorta di El Dorado, il che richiama un concetto che Herzog, ad esempio, dovrebbe conoscere bene e infatti credo che se il tedesco vedesse Rey gli si smuoverebbero certi sentimenti dentro (ormai smarriti). La Fame di conquista, di conoscenza, forse anche di potere sebbene illusorio, sono riversati in un furioso collage audio-visivo che esalta le qualità connettive della settima arte: l’avventura si può unire al muto, il film in costume al legal thriller (esagero), l’avanguardia al repertorio, l’etnologia al surreale, e non è affatto un consesso di velleità artistoidi ma la possibile trasposizione della realtà circostante, il mondo è troppo complesso ed una sola lettura, un solo metodo, una sola forma non sono sufficienti per provare a comprenderlo, accogliamo allora a braccia aperte opere come Rey, inconsapevole cartina tornasole di ciò che c’è al di qua dello schermo e, se non bastasse, portentoso blitz nella mente di un Re del niente, di un essere umano perso nel tormento della sua impotenza.

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