Sette anni prima di
Futures Market (2011) Mercedes Álvarez debutta nel
lungometraggio con un lavoro sospinto da una fortissima carica
personale, El cielo gira (2004) vive infatti nel piccolo
paesino di Aldealseñor, provincia di Soria, non lontano da
Saragozza, che diede proprio i natali all’autrice la quale se ne
andò con la famiglia in cerca di fortuna quando era appena una bimba
di tre anni. Questo potente ritorno (questa regresión, come
viene definita dalla voce narrante) alle origini trova terreno
fertile in un cinema adagiato sulla realtà che nel momento in cui
elabora un ricordo si intreccia nella malia degli altri ricordi in un
filato che ha cuore e voce, nostalgia e poesia: El cielo gira
è un film che ti abbraccia. Nell’opera successiva la Álvarez
riproporrà l’idea di un presente nel quale convivono i fantasmi
del passato e quelli del futuro, ma lì il trend topic della Crisi
Globale risucchierà un po’ tutto il resto, mentre qui no, il
lucido discorso imbastito dalla regista spagnola è una riflessione
non troppo dissimile a quella presente nel dittico di Patricio Guzmán
distribuito in Italia di recente (Nostalgia della luce [2010]
+ La memoria dell’acqua [2015]), abbiamo la possibilità di
penetrare all’interno di una specie di wormhole dove il tempo si
piega su stesso come le magnifiche dissolvenze delle foto in bianco e
nero sulle immagini video degli stessi luoghi immortalati, e allora
questo piccolo paesino si fa centro di un qualcosa infinitamente più
grande e incomprensibile da mente umana: nelle rocce le sagome dei
dinosauri guardano dal basso le imponenti pale eoliche nuove di
zecca, l’antico palazzo di cui nessuno rimembra più l’origine
viene ammodernato per essere trasformato in un hotel, al
cimitero si parla di anime trapassate e nei campi coltivati di
lattughe mentre alla tv il telegiornale ragguaglia sull’attacco americano
ai danni di Saddam Hussein.
Nell’ubriacante
testacoda passato-presente-futuro costellato da continue rivoluzioni,
tutto sembra mutare per poi non cambiare sostanzialmente niente. Come
la ciclicità delle stagioni (non per niente la traccia seguita dal
film stesso), il procedere in avanti è una reiterazione costante, un
ripetersi che plana dall’alto e che diviene aria respirata
quotidianamente dalle persone che fanno l’unica cosa che possono
fare: tirare avanti. Sicché gli echi di una guerra in Iraq sono gli
stessi dell’occupazione romana di mille anni prima, oppure
l’incontro casuale di due uomini marocchini nelle campagne è la
riproposizione di quanto probabilmente accaduto secoli fa (veniamo a
sapere da loro che il palazzo è stato proprio costruito dagli
arabi). La sostanza inalterabile che forgia il paese (e di sicuro non
solo quello) trova esempio puntuale nel campo lungo iniziale, ovvero
quel paesaggio-simbolo per la Álvarez che si è calcificato nella
sua memoria e che a distanza di decenni si ripresenta uguale ad
adesso. La bruma del Ricordo che nella sua essenza più pura non
distingue tra singolarità e collettività, è un fumo che invade
placidamente la visione, e al pari di It’s the Earth Not the Moon (2011) assistiamo ad
un cinema che pur riprendendo il reale sa aprirne le maglie per
accompagnarci in un percorso dove sebbene lo sguardo sia puntato
sugli altri, chi abbiamo visto davvero è nient’altro che noi
stessi.
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