martedì 10 luglio 2018

Journey to Cape Verde

Viagem a Cabo Verde (2010) è, se vogliamo, una storia di emigrazione dove i connotati fondamentali vengono sovvertiti, se Pedro Costa propone da anni un cinema dove l’umanità dei derelitti capoverdiani si trascina nella lurida urbanità portoghese, José Miguel Ribeiro fa da contraltare illustrando un movimento opposto, ovvero il viaggio di un uomo di Lisbona che si sposta dalla capitale all’arcipelago di isolette vulcaniche di fronte al Senegal, e il motivo di tale tragitto è presto detto: “orari, appuntamenti… tutto ha una data di scadenza, lettere e numeri sono ovunque, sulle targhe, nelle vetrine, sulle scarpe, sui vestiti che indossiamo, non possiamo vivere senza dover pensare al giorno successivo?”. Lungi da me anche solo paragonare il cinema di Costa ad un cortometraggino senza chissà quali ambizioni, più che altro citare il maestro lusitano mi ha fatto pensare un po’ in generale al cinema proveniente dalla terra del fado, e qui il lavoro di Ribeiro si ritaglia un piccolo spazio perché al di là di questioni geografiche quella che compie il protagonista è una fuga dall’Europa, e quindi dall’Occidente, in cerca di una serie di necessità che non si possono esplicitare a meno di non trovarsi sul cucuzzolo di una montagna nera come il carbone sferzata dal vento.

Vicenda su quel malessere contemporaneo che proprio non ce la fai più, di una partenza dal ritorno incerto e dal presente volto all’isolamento (il cellulare usato come ferma-lettera-d’arrivederci), peccato che Ribeiro una volta fatto arrivare il protagonista a Capo Verde si lasci andare ad una serie di evidenze riguardanti lo striminzito concetto che vede il luogo, al pari dei suoi abitanti, molto più ospitale e accogliente di quanto si potesse immaginare, un precipitato concettuale schematizzato dall’immediatezza degli eventi dove capisco che si voleva mettere in cattiva luce un certo tipo di modernità in favore di un’esistenza che sta agli antipodi (“sei già padre a sedici anni?”), ma Ribeiro lo poteva fare con altro metodo, sicuramente più fine. Comunque, al pari della maggior dei prodotti attuali che rientrano nel macro insieme del cinema d’animazione, anche Journey to Cape Verde presenta una veste estetica interessante, e partendo dal design del viaggiatore (l’unico realmente nero in un Pese di anime candide) il film cammina sui binari di un diario/vademecum dove tutto si fa ricordo estetico, sicché un quaderno diventa la tela su cui prendono letteralmente vita le persone e i paesaggi incontrati, ammesso che via sia differenza visto che il tallone screpolato di un vecchio si trasforma, grazie alla fantasia del disegnatore, nell’arido fianco di una montagna. Ci sono dunque degli slanci di inventiva continui e, se non siete troppo esigenti, anche gradevoli, e giusto per rimanere in tema di pretese minime pure il finale è dolce con tanto di spolverata poetica.

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