Viagem a Cabo Verde
(2010) è, se vogliamo, una storia di emigrazione dove i connotati
fondamentali vengono sovvertiti, se Pedro Costa propone da anni un
cinema dove l’umanità dei derelitti capoverdiani si trascina nella
lurida urbanità portoghese, José Miguel Ribeiro fa da contraltare
illustrando un movimento opposto, ovvero il viaggio di un uomo di
Lisbona che si sposta dalla capitale all’arcipelago di isolette
vulcaniche di fronte al Senegal, e il motivo di tale tragitto è
presto detto: “orari, appuntamenti… tutto ha una data di
scadenza, lettere e numeri sono ovunque, sulle targhe, nelle vetrine,
sulle scarpe, sui vestiti che indossiamo, non possiamo vivere senza
dover pensare al giorno successivo?”. Lungi da me anche solo
paragonare il cinema di Costa ad un cortometraggino senza chissà
quali ambizioni, più che altro citare il maestro lusitano mi ha
fatto pensare un po’ in generale al cinema proveniente dalla terra
del fado, e qui il lavoro di Ribeiro si ritaglia un piccolo spazio
perché al di là di questioni geografiche quella che compie il
protagonista è una fuga dall’Europa, e quindi dall’Occidente, in
cerca di una serie di necessità che non si possono esplicitare a meno
di non trovarsi sul cucuzzolo di una montagna nera come il carbone
sferzata dal vento.
Vicenda su quel malessere
contemporaneo che proprio non ce la fai più, di una partenza dal ritorno
incerto e dal presente volto all’isolamento (il cellulare usato
come ferma-lettera-d’arrivederci), peccato che Ribeiro una volta
fatto arrivare il protagonista a Capo Verde si lasci andare ad una
serie di evidenze riguardanti lo striminzito concetto che
vede il luogo, al pari dei suoi abitanti, molto più ospitale e
accogliente di quanto si potesse immaginare, un precipitato
concettuale schematizzato dall’immediatezza degli eventi dove capisco
che si voleva mettere in cattiva luce un certo tipo di modernità in
favore di un’esistenza che sta agli antipodi (“sei già padre a
sedici anni?”), ma Ribeiro lo poteva fare con altro metodo,
sicuramente più fine. Comunque, al pari della maggior dei prodotti
attuali che rientrano nel macro insieme del cinema d’animazione,
anche Journey to Cape Verde presenta una veste estetica
interessante, e partendo dal design del viaggiatore (l’unico
realmente nero in un Pese di anime candide) il film cammina
sui binari di un diario/vademecum dove tutto si fa ricordo estetico, sicché
un quaderno diventa la tela su cui prendono letteralmente vita
le persone e i paesaggi incontrati, ammesso che via sia differenza
visto che il tallone screpolato di un vecchio si trasforma, grazie
alla fantasia del disegnatore, nell’arido fianco di una montagna.
Ci sono dunque degli slanci di inventiva continui e, se non siete
troppo esigenti, anche gradevoli, e giusto per rimanere in tema di
pretese minime pure il finale è dolce con tanto di spolverata
poetica.
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