venerdì 27 luglio 2018

Fuocoammare

[…] serve a ricollocare la ricerca di Sacro Gra e Tir nell’ambito di un cinema che dovrebbe essere medio, ed è scambiato per avanguardia.

(Giulio Sangiorgio, link non più visibile a causa della ristrutturazione del sito Spietati.it)

Condivido appieno la frase sopraccitata, in un mondo giusto il cinema di Gianfranco Rosi dovrebbe essere la normalità, d’altronde al regista nato in Eritrea la tecnica e i finanziamenti giusti non mancano mai per cui i suoi lavori sono sempre prodotti costituiti da un elevato tasso di professionalità, ma si sa, questo mondo di normale ha ben poco e allora succede che gli ultimi due film di Rosi, una coppia che sintetizzo così: mediocre, si siano aggiudicati altrettanti prestigiosi riconoscimenti festivalieri. Se Sacro GRA (2013) era parso al sottoscritto un titolo enormemente derivativo, vuotino e plastificato, con Fuocoammare (2016) il discorso sale un po’ di livello e devo ammettere che almeno il documentario in sé è stato capace di sfiorarmi a livello intellettivo. Ma era inevitabile, nel senso, qui parliamo di un’opera che anche senza volerlo si imbeve di politica, e dato che la politica è una cosa che dovrebbe riguardarci tutti, di fronte ai cadaveri dei migranti stipati come bestie nelle stive delle barche c’è di cui pensare. Anche se: si viene toccati né più né meno che dalla visione di un reportage televisivo, anzi è probabile che un ipotetico reportage sia capace di cogliere in modo ancora più diretto la realtà per sbattercela sotto al naso. Un nodo dell’affaire Rosi sta proprio nella percezione che si ha dei film che finora ha girato, è un cinema strano il suo e a onor del vero non sono ancora riuscito a comprenderlo, perché se è condivisibile considerare Rosi un regista del reale, al contempo si sono visti studi sulla materia molto ma molto più convincenti e con effetti sullo spettatore inevitabilmente più rimarchevoli.

Se ci si domanda come mai accada ciò, o, nel caso specifico, come mai in Fuocoammare non si esplicita quella forza investente che gli piacerebbe avere, è plausibile trovare una risposta in un altro film, forse il migliore di Rosi, chiamato El Sicario, Room 164 (2010), dove la presa sulla realtà non poteva avere filtri, divagazioni di sorta o para-narrazioni, e pur non mostrando nulla, soltanto le parole di un uomo incappucciato, il grado di suggestione erogato era davvero forte. Realismo sì dunque, ma prima con Sacro GRA e poi con l’immediato successore (e in particolare con quest’ultimo), il tentativo di fornire delle possibili strade-racconto all’interno del contenitore documentaristico non paga granché; nel film trionfatore a Berlino ’16 la scelta di contrapporre il piccolo Samuele al tema principale degli immigrati si macchia di alcuni parallelismi su cui serbo più di un dubbio, concettualmente potrebbero anche essere fecondizzanti, nella pratica si esplicitano in continue contrazioni, forzature che stridono con il ricercato impianto realistico. Se si prende in esame il bimbo ci sono parecchie corrispondenze con la relativa controparte clandestina (lapalissiana la scena del dottore e dell’ansia che lo affligge [1]), non si sa se tutte così spontanee (nella ripresa notturna con l’uccellino si propende per il no), e non si sa se tutte costruttive, quello che si sa è che in tali condizioni Fuocoammare risulta un film assemblato in un modo che la verità invece di apparire per come è si infiacchisce all’ombra di discutibili tentativi registici, e se si ripensa a Below Sea Level (2008), un lavoro che condivide con questo la lenta incursione di Rosi nel territorio, in ambo i casi si parla di mesi e mesi di permanenza e tessitura di rapporti umani, si può annotare un’evidente differenza di resa complessiva, forse un tono “minore” è quello che riesce ad essere più convincente delle traiettorie che sfiorano l’arido autorialismo.
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[1] Capita che alcuni mesi dopo incappo in Les éclats (Ma gueule, ma révolte, mon nom) (2011) di Sylvain George dove è presente una scena ambulatoriale pressoché identica a quella di Fuocoammare ma con una differenza fondamentale: non è un bambino italiano a farsi visitare dal dottore bensì un ragazzo clandestino. Ecco come un diverso approccio inficia il risultato, se Rosi sovraccarica la realtà con la metafora ben poco celata del bimbo come punto di convergenza di tutto il dolore circostante, George opta per una posizione più “vera”: racconta una storia che, semplicemente, si racconta da sola.

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