[…] serve a ricollocare
la ricerca di Sacro Gra
e Tir
nell’ambito di un cinema che dovrebbe essere medio, ed è scambiato
per avanguardia.
(Giulio Sangiorgio, link non più visibile a causa della ristrutturazione del sito Spietati.it)
Condivido appieno la
frase sopraccitata, in un mondo giusto il cinema di Gianfranco Rosi
dovrebbe essere la normalità, d’altronde al regista nato in
Eritrea la tecnica e i finanziamenti giusti non mancano mai per cui i
suoi lavori sono sempre prodotti costituiti da un elevato tasso di
professionalità, ma si sa, questo mondo di normale ha ben poco e
allora succede che gli ultimi due film di Rosi, una coppia che
sintetizzo così: mediocre, si siano aggiudicati altrettanti
prestigiosi riconoscimenti festivalieri. Se Sacro GRA (2013)
era parso al sottoscritto un titolo enormemente derivativo, vuotino e
plastificato, con Fuocoammare (2016) il discorso sale un po’
di livello e devo ammettere che almeno il documentario in sé è
stato capace di sfiorarmi a livello intellettivo. Ma era inevitabile,
nel senso, qui parliamo di un’opera che anche senza volerlo si
imbeve di politica, e dato che la politica è una cosa che dovrebbe
riguardarci tutti, di fronte ai cadaveri dei migranti stipati come
bestie nelle stive delle barche c’è di cui pensare. Anche se: si
viene toccati né più né meno che dalla visione di un reportage
televisivo, anzi è probabile che un ipotetico reportage sia capace
di cogliere in modo ancora più diretto la realtà per sbattercela sotto al naso. Un nodo dell’affaire Rosi sta
proprio nella percezione che si ha dei film che finora ha girato, è
un cinema strano il suo e a onor del vero non sono ancora riuscito a
comprenderlo, perché se è condivisibile considerare Rosi un regista
del reale, al contempo si sono visti studi sulla materia molto ma
molto più convincenti e con effetti sullo spettatore inevitabilmente
più rimarchevoli.
Se ci si domanda come mai
accada ciò, o, nel caso specifico, come mai in Fuocoammare
non si esplicita quella forza investente che gli piacerebbe avere,
è plausibile trovare una risposta in un altro film, forse il
migliore di Rosi, chiamato El Sicario, Room 164 (2010), dove la presa
sulla realtà non poteva avere filtri, divagazioni di sorta o
para-narrazioni, e pur non mostrando nulla, soltanto le parole di un
uomo incappucciato, il grado di suggestione erogato era davvero
forte. Realismo sì dunque, ma
prima con Sacro GRA e
poi con l’immediato successore (e in particolare con quest’ultimo),
il tentativo di fornire delle possibili strade-racconto all’interno
del contenitore documentaristico non paga granché; nel film
trionfatore a Berlino ’16 la scelta di contrapporre il piccolo
Samuele al tema principale degli immigrati si macchia di alcuni
parallelismi su cui serbo più di un dubbio, concettualmente
potrebbero anche essere fecondizzanti, nella pratica si esplicitano
in continue contrazioni, forzature che stridono con il ricercato
impianto realistico. Se si prende in esame il bimbo ci sono parecchie
corrispondenze con la relativa controparte clandestina (lapalissiana
la scena del dottore e dell’ansia che lo affligge [1]), non si sa se
tutte così spontanee (nella ripresa notturna con l’uccellino si
propende per il no), e non si sa se tutte costruttive, quello che si
sa è che in tali condizioni Fuocoammare risulta un film
assemblato in un modo che la verità invece di apparire per come è
si infiacchisce all’ombra di discutibili tentativi registici, e se
si ripensa a Below Sea Level (2008), un lavoro che condivide con
questo la lenta incursione di Rosi nel territorio, in ambo i casi si
parla di mesi e mesi di permanenza e tessitura di rapporti umani, si
può annotare un’evidente differenza di resa complessiva, forse un
tono “minore” è quello che riesce ad essere più convincente delle traiettorie che sfiorano l’arido autorialismo.
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[1] Capita che alcuni
mesi dopo incappo in Les éclats (Ma gueule, ma révolte, mon nom)
(2011) di Sylvain George dove è presente una scena ambulatoriale
pressoché identica a quella di Fuocoammare ma con una
differenza fondamentale: non è un bambino italiano a farsi visitare
dal dottore bensì un ragazzo clandestino. Ecco come un diverso
approccio inficia il risultato, se Rosi sovraccarica la realtà con
la metafora ben poco celata del bimbo come punto di convergenza di
tutto il dolore circostante, George opta per una posizione più
“vera”: racconta una storia che, semplicemente, si racconta da
sola.
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