martedì 29 marzo 2016

Ancha es Castilla/N'importe quoi

Chi ha visto Finisterrae (2010) sa molto bene che una delle componenti principali del film era quella di smascherare il proprio nucleo, in ogni frangente Caballero non smetteva mai di ricordarci che quelli in scena non erano due fantasmi, che la loro ectoplasmicità rimaneva in un immaginario del tutto aleatorio, lì vedevamo il concreto, quello che c’era sotto (il lenzuolo: i piedi!), non solo anatomicamente parlando, ma anche emotivamente: i due fantasmi provavano sensazioni a tutto tondo. In sostanza la tendenza di Finisterrae a togliere il velo della macchinazione è la stessa che sottende Ancha es Castilla/N'importe quoi (2014), anzi se nel lungometraggio del 2010 oltre all’intento para-teorico c’erano delle parentesi (diciamo) meditative, in questo cortometraggio Caballero è esclusivamente impegnato a farci vedere i pezzi che compongono il suo giochino. La voluta e ricercata esposizione dello spirito artigianale che  permea l’opera non lesina acutezze davvero ingegnose, e quindi sì al design dei personaggi-burattini, (implementato anche dalla loro straniante presenza in larga scala), strasì poi alla corrente autoironica che fidelizza (la battuta su Wikileaks sottolineata dalle risate finte; le cicche gettate dal vicino di sotto), e sì sopra ad ogni altra riflessione allo spirito anarchico che impregna il corto, non so se si possa parlare di “libertà creativa” ma di sicuro, a fine visione, è doveroso rendere a Caballero i meriti di un oggetto dalla traiettoria sghemba e improbabile, un balocco che cita e che scappa via, un’eventualità artistica che rimbalza da un’oscurità dove gli sgorbi della Troma invocano l’avvento del dio Švankmajer.

Ma c’è dell’altro che accomuna Finisterrae e Ancha…: è una faccenda che esula dal giudizio in sé del film ma che comunque ne potrebbe (e per quanto mi riguarda lo fa) intaccarne il valore. Sergio Caballero, catalano di Barcelona, non è un regista convenzionale: lui non è un regista, è piuttosto un’artista cross-mediale (?) che ha come propria fucina dell’estro il Sónar, Festival di musica elettronica che si tiene ogni anno verso giugno di cui Caballero è fondatore e attuale organizzatore. Ora, a leggere le parole di Caballero (link) i suoi lavori di regia non sarebbero altro che delle propaggini della kermesse festivaliera a testimonianza dell’apertura e dell’interscambiabilità artistica che attraversa tale evento. Sicuramente è così. Però, ahimè, l’orgoglio cinefilo è spinto all’insurrezione perché accettare l’ombra del Sónar su Ancha…, come sugli altri due (idem per La distancia [2014]), significa accettare la vera natura dei suddetti film, che è quella di essere un Prodotto. Non c’è traccia di cinema all’interno, c’è solo l’esteriorità della patina che ha la funzione di farsi un veicolo di comunicazione. La coppia di fantasmi, la famiglia di mostri, il trio di nani, diventano aridi mezzi per la mercificazione del Festival che finiscono stampati su locandine, flyer e quant’altro. In questo modo, a mio avviso, anche quella carica piacevolmente indisciplinata citata nel primo paragrafo si infossa, si riduce per far posto all’export. Il valore creativo si prostituisce e la memoria eidetica rischia di doversi abbeverare alla fonte più putrescente: quella della pubblicità.

venerdì 25 marzo 2016

Crespià

Se cercavate l’intransigenza stilistica e l’azione smitizzante di Honour of the Knights (2006), Birdsong (2008) o Story of My Death (2013), con Crespià (2003) non troverete niente di tutto ciò. Non che il primo film di Albert Serra sia un prodotto routinario perché come vedremo è di una singolarità pressoché unica, di certo però le strepitose atmosfere delle opere successive qui latitano che è un piacere, ci troviamo al nadir di esse, niente fotografia lucente in bianco e nero, niente dilatazione delle riprese, niente istantanee da incorniciare nella memoria, al contrario: colore, sciatteria, confusione. Sicuramente le ristrettezze finanziare hanno pesato sulla realizzazione del film tanto che, mi permetto di dire, Crespià in tali frangenti non si discosta poi troppo da una produzione amatoriale (ad un certo punto si vede chiaramente l’operatore riflesso nel vetro di un’automobile: probabile svista e non dettaglio vontrieriano voluto), e questa dimensione non esattamente professionale si deve anche al fatto che Serra decide di insinuarsi nell’eterna diatriba documentario/fiction creando un incrocio che da una parte si occupa della poco interessante vita di Crespià, piccolissimo comune spagnolo situato in provincia di Girona citato anche ne El somni (2008) e poco distante da Banyoles, luogo natale di Serra, e dall’altra sceglie di sperimentare spargendo delle improvvise e strambe parentesi musicali che sono tanto divertenti quanto incomprensibili nella veduta d’insieme.

Onestamente è difficile capire il perché di una pellicola del genere, in una dichiarazione a questo sito (link) Serra afferma che una volta individuata la location capì subito che il film in procinto di girare sarebbe stata la sua versione di Grasso è bello (1988) o di Cry-Baby (1990). Non avendo visto i film-musical di Waters evito di avventurarmi in paragoni alla cieca, tuttavia chiunque di fronte a Crespià storcerebbe il naso a causa di una vacuità che oscilla tra il futile ed il frivolo, un’assenza di direzione che lo lascia seduto a crogiolarsi nei suoi estemporanei siparietti popolati di macchioline umane, talmente slegato ed episodico da risultare faticoso sebbene spalmato su neanche ottanta minuti di durata, così minuto e autoctono da far pensare più ad uno sghiribizzo personale di Serra che ad un progetto pensato per il pubblico, una (sotto)specie di Our Beloved Month of August (2008) privo di seconda parte e soprattutto privo di un impianto teorico in grado di sorreggerlo.

lunedì 21 marzo 2016

Le mille e una notte - Arabian Nights: Volume 1 - Inquieto

As Mil e Uma Noites (2015), il ciclopico progetto tripartito di Miguel Gomes, straripante nel minutaggio, nell’abbondanza narrativa, nella versalità categoriale, nella natura multilinguistica, non ha, come era prevedibile, praticamente nulla in comune con il fiabesco classico de Le mille e una notte, Gomes, comunque non nuovo ad orientarsi in territori favolistici (ricordiamo A Cara que Mereces, 2004), astrae la fiaba dal suo lungo racconto (e di questo si tratta: alla fine di ogni capitolo c’è un indice proprio come se avessimo sfogliato con gli occhi un libro-film) che fa quasi esclusivamente da contenitore, il quasi è dovuto al fatto che la realtà proposta è ad ogni modo ingemmata da una surrealtà che rappresenta il quid pluris dell’opera. Ma forse è meglio stoppare le chiacchiere e addentrarci subito nel magma filmico: Inquieto ha nel prologo lungo una ventina di minuti il manifesto autoriale del regista nato a Lisbona, Gomes si trova faccia a faccia con la cruda realtà: a Viana do Castelo, località marina nel nord del Portogallo, i lavoratori del porto rischiano di essere licenziati a causa della crisi. E lui, sentendosi in qualche modo eticamente obbligato a presenziare il dramma dei suoi connazionali, porta il cinema in questa città del Minho. Ma non sa che fare: probabilmente la Verità è troppo tragica e l’arte non riesce a fronteggiarla, allora innesta in una tale cornice sociale un’altra storia, apparentemente slegata, dove un signore di mezz’età combatte la diffusione di alcune pericolose vespe asiatiche che stanno decimando le api autoctone azzerando perciò la produzione di miele. Ecco un’avvisaglia di ciò che sarà O Inquieto: un’allegoria (le api come i lavoratori minacciati da forze… estere), la rappresentazione della Crisi attraverso un registro liquido che si diffonde in molte direzioni, che oscilla tra l’attuale e l’inattuale, un film imbizzarrito (Gomes scappa fin da subito lasciando la pellicola nella furia di una narrazione lievitante) eppure docile (c’è odore di tenerezza in certi frangenti, ma non chiedetemi perché).

La polpa di questo primo volume segue la falsariga del proprio incipit, ossia la coniugazione di uno studio sul contemporaneo punteggiato da elementi dell’assurdo che danno slancio, fantastifichizzano, trasformando il tutto in una scatola cinese di storie nelle storie dentro ad altre storie dando vita ad un procedimento ludico potenzialmente infinito. La prima novella di Shahrazād è una geniale metafora della situazione politica portoghese con un taglio che davvero ciondola nelle zone cinematografiche più diverse (anche quelle di Lanthimos forse) e che squaderna un’ironia e un tasso di irrazionalità indomabili, riuscendo però sempre ad avere un piede ancorato nell’oggi e allora ecco che il politico tedesco (protagonista di un flashback che ci riporta a Redemption, 2013) è l’unico a preoccuparsi dell’inaspettata virilità acquisita a dispetto dei colleghi lusitani pronti a sfruttare subito la rinnovata gagliardia. Non poteva esserci una trattazione del debito pubblico portoghese più originale e più cogente di questa. La politica fa capolino anche nel secondo racconto dove un gallo della discordia è al centro di un intrigo legato a delle elezioni comunali, anche qui si opera nella traslazione: è possibile vedere nelle sorti del gallo canterino un condannato a morte la cui legittimità dell’esecuzione è discussa dal popolo, tuttavia la risoluzione che Gomes fornisce della faccenda è un’ascesa dolce, un salto bellissimo, inaspettato e rincuorante: il gallo, intercedendo tramite un giudice che comprende la sua lingua, ci racconta una storia (un’altra) che sembra la riproposizione in scala ridotta dell’afflato sentimentale di Tabu (2012), un triangolo amoroso interpretato da tre bambini che comunicano con il linguaggio degli sms. Come detto, il ventaglio dei registri è oltremodo ampio e Inquieto emana il profumo di una piacevole sensazione: non si sa mai a cosa andremo incontro. Infatti l’ultimo capitolo, il più “realistico” se così possiamo dire (di spazio per “altro” ce n’è poco: una balena esplode e una sirena si spiaggia rantolando), stinge leggermente l’apparato fantasioso mettendoci nei panni di un sindacalista a tu per tu con la Crisi Economica: tre testimonianze di tre persone (quindi sì, ancora una volta dei racconti dentro al racconto) che potrebbero essere italiane, francesi o spagnole alle prese con i problemi che ben conosciamo, Gomes si fa sardonico: il vecchio sindacalista, tormentato dall’incapacità di risolvere i problemi della gente,  si affanna nel sottolineare l’importanza di presentarsi la mattina dell’1 gennaio 2014 per compiere il rituale del bagno d’inverno. La mdp di Gomes posizionandosi sulla battigia riprende per davvero la massa di uomini e donne che si lanciano nelle fredde acque oceaniche, ma l’autore espropria il sonoro dalle immagini lasciando un freddo tappeto sibilante, un vento che sferza ovattato, una sensazione di inquietudine.

Il primo tassello dell’opera una e trina di Miguel Gomes si rivela dunque un magnifico gomitolo di storie che con disinvoltura sa parlare direttamente al suo spettatore di contemporaneità senza negarci la possibilità di fertilizzare la nostra immaginazione con finestre oniriche. È grande cinema. Prossima tappa: Desolato.

domenica 20 marzo 2016

7p., cuis., s. de b., ... à saisir

Girato all’età di cinquantasei anni in un ospedale in disuso nei pressi di Avignone, con 7p., cuis., s. de b., ... à saisir (1984) Agnès Varda esibisce un’intemperanza autoriale che nell’appena successivo Senza tetto né legge (1985) sarà totalmente annullata. Qui l’apertura con le parole fuori campo di un agente immobiliare che presenta ad un potenziale acquirente la grossa casa abbandonata, diventa nel giro di poco una manifestazione di cinema ectoplasmico sciolta totalmente in una pozione illogica e surreale. Tutto si sovrappone, il tempo si polverizza: prima e dopo coesistono, si fondono, disorientano per la loro coincidenza, per l’indeterminatezza che suggeriscono (gli anziani dell’ospizio che “infestano” le stanze della magione), e assurdamente (questo tempo) scorre, come in un racconto famigliare che rimbalza vent’anni dopo (i genitori invecchiano, i figli crescono). Si aprono porte in questa casa-cervello che penetrano nel sogno (la scritta sul vetro del bagno: rêve), nello spazio mentale dell’immobile che sembra accudire i ricordi di chi ha vissuto lì dentro, di chi ci dovrà vivere o di chi, probabilmente, non ci vivrà mai.

Talmente esteso da tangere i due estremi opposti, ovvero quello dell’insolenza artistica e quello della caparbietà (sempre artistica), il corto di Agnès Varda va comunque visto perché oggetto raro trasportato in territori d’avanguardia che a tutt’oggi necessitano di ulteriori esplorazioni, film che si dissocia dalla normalità in ogni fotogramma (ci sono manichini dagli occhi mobili, cucine ricoperte d’erba, e una sequenza – La sequenza – dove un’ottuagenaria nuda è circondata da pareti ricoperte di piume, il che mi ha ricordato lo Švankmajer di Lunacy [2005], mica uno qualunque), rompicapo di neanche mezz’ora dove la spasmodica ricerca di un senso deve essere lasciata ai grigi individui che esigono delle risposte, voi al contrario lasciatevi assorbire da questo labirinto di specchi, forse, guardando attentamente, al suo interno potreste vedere qualcosa che assomiglia al vostro riflesso.

sabato 19 marzo 2016

Steam of Life

Documentario di costume: i due registi, Joonas Berghäll e Mika Hotakainen, per il loro Miesten vuoro (2010) indirizzano l’attenzione sull’importanza della sauna nel territorio finlandese: è proprio una questione di capillarità: nel continuo subentrare di nuovi dialoghi/monologhi anche gli ambienti cambiano di conseguenza mostrando un’ampia varietà di saune che vanno da quelle pubbliche situate in città a quelle personali posizionate a qualche metro dalla propria casa, con, perfino, saune ad personam tipo cabina telefonica erette nel bel mezzo di una campagna verdeggiante. La quantità di baracche, capanne, finanche roulotte adibite a luogo dove rilassarsi, in compagnia o in solitudine, squadernano l’essenza di quella che se per i nostri occhi è una normale pratica da SPA per i finlandesi è molto di più, una tradizione (“sono cinquant’anni che lavo questa schiena” dice il marito alla moglie nell’incipit), un rituale, una nicchia di socialità che riguarda tutti: bambini, uomini, anziani, disabili.

Ponendo qualche timido dubbio sulla genuinità del dispositivo (chi scrive ha delle riserve in merito alla veridicità delle persone e di ciò che raccontano, l’impressione è che le conversazioni e i loro interpreti non siano completamenti naturali), assistiamo ad un mettersi a nudo che oltrepassa la mera svestizione, i corpi caduchi e imperlati di sudore ostentati con dignità sono niente al confronto delle aperture intime che davvero spogliano gli esseri umani sullo schermo [1]; ci sono confessioni, ricordi strazianti, pensieri funerei e a controbilanciare storie di riabilitazione, di speranza, di amore (e un tizio che ha per amico un orso, indubbiamente il numero uno). A raccordare i segmenti portanti del film i due registi incollano scorci paesaggistici da mozzare il fiato per un prodotto curioso soltanto in superficie: cambia il set, non le tribolazioni, quelle sono dovunque le stesse.
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[1] Per rimarcare la condizione quasi sospesa, fetale, degli avventori saunisti, alla fine ci vengono presentati in sequenza con indosso abiti civili manifestando il loro esser comune.

venerdì 18 marzo 2016

Final Cut: Ladies & Gentlemen

Non sappiamo se György Pálfi ne fosse consapevole o meno durante la realizzazione di Final Cut: Hölgyeim és uraim (2012), è presumibile di sì, ma di primo impatto chi si affaccia più volte sul balcone della nostra mente è la venerabile coppia Baruchello & Grifi con la loro terremotante Verifica incerta del ’65, non c’è nessun confronto in atto perché l’opera dei due avanguardisti italiani nasceva in un contesto culturale diverso, per loro fare un film così era ciò che lo sperimentalismo chiedeva e chiede tutt’ora a gran voce, e cioè sovvertire, provocare, scardinare, non per niente il corto fu molto apprezzato da Duchamp, per Pálfi invece Final Cut è stata più che altro una necessità vista la mancanza di denaro per girare normalmente, e poi ciò che compie il regista ungherese è un’esaltazione del cinema, una specie di glorificazione, mentre per Grifi si era trattato più che altro di un atto terroristico: rivoluzionare dall’interno il cinema americano, ed anche se allineiamo i montaggi dei due film è possibile notare come quello dei nostri connazionali sia più irregolare, sporco, alienato. Poco importa però, il lavoro di Pálfi, durato tre anni a partire dal non eccelso I Am Not Your Friend (2009), suscita comunque ammirazione a prescindere da inopportuni paragoni (il giudizio che si avvale del paragone è un giudizio inopportuno. Ho parlato), forse si attenua un poco la possibile esaltazione poiché ci rendiamo conto di non trovarci di fronte ad un prodotto definibile come seminale, ma lo dico sottovoce, e quasi non mi sentirete più…

Il mosaico che contiene i tasselli di oltre quattrocento film costruisce incastro dopo incastro la celebrazione del montaggio. Non c’è altro, qui, che non trovi senso nella sequenzialità scelta da Pálfi, e sebbene si sappia dai tempi di Ėjzenštejn che il montaggio fornisce significazione, in Final Cut arriviamo all’apoteosi: se non ci fosse il procedimento di taglia e cuci allora non ci sarebbe nemmeno il film in sé né la collaudata storiella d’amore che racconta. È curioso che Pálfi, giusto per ricordare è l’autore di Taxidermia (2006), abbia utilizzato un massiccio numero di pellicole dallo stampo classico (c’è La donna che visse due volte, 1958) e commerciale (c’è Avatar, 2009) per erigere il proprio monumento al cinema quando lui stesso è un’artista lontanissimo da quelle aree; l’uso dello scheletro narrativo che ricalca qualunque love story con annesso happy end o l’avvalersi di espedienti scadenti del tipo era-tutto-un-sogno, concorrono al tributo di un cinema che non appartiene al sottoscritto e credo nemmeno a Pálfi, comunque se ampliamo lo spettro visivo ritengo che sia lodevole il movimento concettuale del regista il quale, in un’ottica universale, ovvero l’ottica costitutiva dell’opera, ci restituisce un trattato perfettamente moderno sullo stato dell’arte. Perché nell’epoca attuale, imbolsita da flussi narrativi programmaticamente incanalati, l’incedere tramite lacerti sconnessi ed in teoria inconciliabili appare la migliore alternativa per un manufatto realmente organico basato su una molteplicità che sa ricongiungersi nell’unicità. E non vi è alcuna intercessione divina, “soltanto” la versatilità del medium cinema, qui trasportata, almeno per quanto concerne la montatura, all’acme.

giovedì 17 marzo 2016

Deface

Corea del Nord: la morte della figlioletta fa sbroccare l’operaio Sooyoung, il regime dovrà fare i conti con la sua ira… vandalica.

Un americano che fa un film sulla Corea del Nord? Da non crederci, e invece è vero [1]: questo John Arlotto, del quale non vi so dare alcuna informazione, gira nel 2007 il suo primo cortometraggio incentrato sulla dittatura di Kim Jong-il (anche se il riferimento al leader deceduto nel 2011 non è esplicitato a chiare lettere) con focus su un gruppetto di lavoratori circondati da cartelloni propagandistici piene di facce sorridenti che dicono “va tutto benone”. La questione fondamentale è che sebbene gli attori e la lingua siano locali il punto di vista del film è chiaramente anti-coreano e ciò che mette in piedi Arlotto sembra un trattatello di contro-propaganda caratterizzato da una dose di sentimentalismo gratuito tipicamente statunitense. Beninteso: non si critica la presa di posizione del regista la cui legittimità è inattaccabile, bensì i modi di esposizione che descrivono in modo talmente elementare fino a sfiorare la parodia involontaria chi sta dalla parte del bene e chi da quella del male. Più che un lavoro di denuncia Deface assume, o meglio: vorrebbe assumere, connotati universali mirati a descrivere la condizione dell’uomo oppresso e dei suoi tentativi per riuscire a spezzare le catene. In tali tentativi Arlotto pesca un escamotage intelligente come lo storpiamento degli slogan posti sui manifesti, un moto rivoluzionario pacifico che va annoverato tra i pregi del film, se però osserviamo il disegno complessivo la tendenza che diventa quasi parabolica (ed è paradossale, proprio un americano che si mette a dare lezioni di non belligeranza…) nel voler insegnare ciò che è giusto e cosa non lo è indispettisce la coscienza di ogni buon spettatore che si rispetti.
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[1] Al tempo in cui scrissi queste righe, più o meno tre anni fa, non era ancora uscito The Interview (2014).

mercoledì 16 marzo 2016

Dio esiste e vive a Bruxelles

Per Jaco Van Dormael Dio è donna, così come il Nuovo Profeta. L’obiettivo che il regista belga si è preposto con il suo quarto lungometraggio è stato quello di rovesciare gli assiomi del cristianesimo: ecco, non una cosa proprio da niente visto il materiale che in fase di pre-scrittura doveva fronteggiare: smitizzare i santi, giocare coi dogmi, detonare la sacralità, il tutto senza ovviamente abbandonare il proprio stile oramai sempre più riconoscibile, cinema che si eleva nell’infantilità, esplorazione dei territori reconditi dell’immaginazione che tutto può, con Van Dormael. Anche spodestare Dio, e per fare questo si è avvalso di un impianto che opera sovvertendo: il Dio che incontriamo è un uomo cattivo e sbruffone, un demiurgo che gode delle sfighe altrui, un padre padrone qualunque. L’emersione del contrasto tra ciò che è la nostra idea di divinità e quella di Van Dormael ha i suoi effetti corroborati da scenette un filo taglienti che si sviluppano una volta che Egli scende tra noi (i ripetuti pestaggi, la goffaggine, l’incapacità di trascendere la materialità: lui non cammina sull’acqua), ma Le tout nouveau testament (2015) non può essere limitato a questa lettura anche perché sebbene si potrebbe vedere nella contro-evangelizzazione il motivo portante dell’opera, con annessa ironia nemmeno troppo velata sul vuoto dietro e dentro la religione, alla fine chi scrive non è rimasto poi tanto impressionato dalla declinazione vandormaeliana di Dio che pur divertente finisce per farsi vignetta, bidimensionalità macchiettistica, e le accentature come il Gesù statuetta o il sistema-Matrix in DOS che genera leggi-stereotipo seguono un medesimo andazzo: divertentismi evidenti, ciliegine comunque spolpate.

Non è quindi il racconto di superficie a calamitare lo spettatore, ciò che si deve però evidenziare è ancora una volta il metodo di Van Dormael che, come ci aveva fatto vedere in occasione di Mr.Nobody (2009), è ormai capace di manipolare come desidera (e anche come desidera una semplice persona che guarda: banalmente: essere stupiti dalla visione) i processi narrativi che con lui germogliano incessantemente dando vita ad una scatola magica che riporta tutto ad una dimensione di perduto e qui ritrovato incanto. Ergo, è tutto bellissimo: l’applicazione del proprio metodo alla riscrittura della Sacra Scrittura è l’ennesima occasione per sgomitolare un filo di storie incredibili dove Van Dormael pesca da un cilindro senza fondo una quantità di trovate estetiche funzionali all’irrealtà rappresentata. Si gode parecchio nell’assistere al film e c’è conforto nel prendere atto che dopo millenni di storie la nostra coscienza emotiva può essere ancora stimolata da una storia, in fondo tutta la questione di Dio ivi imbastita passa agevolmente in secondo piano, a mano a mano che facciamo conoscenza con i sei apostoli c’è solo un aspetto che reclama urgente attenzione: è l’umano, quindi la vita, che nella prospettiva di Van Dormael arriva ad una riconciliazione attraverso l’amore. Quello che ci viene insegnato senza saccenza è quell’apertura verso l’Altro (anche così diverso: un gorilla!) che diviene accoglienza di sé: è, nella scena-riempi-cuore, l’abbracciare il proprio riflesso nello specchio.

Alla luce dei lavori precedenti, ricordiamo Toto le héros (1991) e il non perfetto L’ottavo giorno (1996), Jaco Van Dormael afferma lo status di regista massimalista, un titolo che a conti fatti non può condividere con nessuno (forse Sion Sono ed altri orientali ma si tratta di un altro mondo; forse l’Julio Medem di un tempo ma oramai, di tempo, ne è passato troppo per lo spagnolo), e nel panorama del cinema da sala, metastatizzato ogni giovedì della settimana dalle copie conformate che la distribuzione immette nel mercato, l’offerta di Van Dormael, in un’ottica che definirei in modo banalizzante “d’intrattenimento”, è quanto di meglio ci possa essere.

martedì 15 marzo 2016

Code Blue

Ancora più asciutto dell’esordio Nothing Personal (2009), l’opera seconda della polacca (ma olandese d’adozione) Urszula Antoniak ci pone al cospetto del dramma nudo, i fronzoli non esistono: è dramma che causa scomodità, qui che la nascita è nociva come l’aria ospedaliera (ultimi respiri, aliti fognari, puzza di piscio, cloroformio) che la regista filtra oltre l’apparecchio, ci sono degli odori e dei dolori che trapassano (lo dice l’incipit quasi vontrieriano [1], il volto ritorto e soffocato), lo si ribadisce nel procedere autoptico con una scena che è scolorita come la vita (la tinta rossa è solo sogno, forse), e allora non si fa disdegnare l’idea che la Antoniak ci trasmette nella prima porzione: fare un film su un’infermiera sola al mondo che cerca un riscatto nell’alleviare la sofferenza altrui. Potenzialmente c’era della politica nella tesi del film, perché non affrontare il discorso sull’eutanasia con una prassi d’essai? C’era. In realtà la Antoniak adopera la questione delle iniezioni letali più per costruire il suo personaggio che per costruire un proprio pensiero sul suicidio assistito. Ma può comunque andare bene, si vada oltre: oltre c’è l’accentramento completo sulla figura di Marian, Code Blue (2011) è nel concreto un film marianocentrico (Bien de Moor è frusta e fiore avvizzito), disinteressato perciò ad esportare una riflessione più alta, concentrato unicamente sul mondo-solitudine della donna (il tic maniacale di conservare gli oggetti dei defunti è un sintomo che rimbalza tra la tenerezza e il feticismo).

La solitudine sembra apparire come un motivo di studio per la Antoniak, infatti dopo alcuni accenni (l’autobus, il citofono) il film segue pedissequo le orme del suo predecessore allestendo l’incontro tra due esseri umani soli, ecc. Dalla scena posticcia dello stupro vissuto on air con lui (è Lars Eidinger visto in Everyone Else, 2009), si narra lo schema d’incontro fortuito, tutto è molto rapido (il film non durerà neanche settanta minuti netti), troppo: qui il giudizio mi si è biforcato: una parte ha gradito la falsa pista rischiarante del possibile feeling amoroso (la cordialità alla festa, il film in comune) spazzato via dalla ferocia conclusiva, e quindi: nessuna speranza, l’umanità fa schifo e via dicendo, l’altra parte invece ha ragionato sul finale in sé e su ciò che lo precede, e analizzando al setaccio al di qua della rete restano i dati concreti: una buona forma e del materiale con spunti di potenziale a cui si è preferito seguitare con tragediette dentro il particolare, quando invece è l’Universale che fa la differenza.

Nel riproporci una versione assiderata de La pianista (2001), d’altronde sfido chiunque a non porre in parallelo la de Moor e la Huppert entrambe in cerca di viscosi residui postcoitali, Urszula Antoniak pare aver precisato quale sia la sua idea di cinema, un telo funebre intrecciato dalla fibra del dramma e da quella di un’ipotetica mitigazione, finora sempre venuta meno. Di più non vi è riscontro. Si rimane in attesa di altri elementi per valutare meglio.
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[1] Sarà una coincidenza il fatto che quando Marian si reca in un negozio di dvd vediamo chiaramente quello di Antichrist [2009]?. Le coincidenze, come dicono i due protagonisti di Code Blue, sono divertenti.

lunedì 14 marzo 2016

Slobodan pad

Nikola decide di lanciarsi col paracadute da un piccolo aereo, durante la caduta accade un evento particolare.

Tale evento non brilla di originalità: trattasi infatti della tipica rivisitazione esistenziale del predestinato ad una possibile quanto incombente morte. Ci sono le istanze più pronosticabili: flash famigliari, lavorativi, sentimentali, e così via. Il regista serbo Vladimir Djukelic, al tempo ventiduenne visto che Slobodan pad è datato 2004, si cimenta in un metodo di trasmissione che perlomeno insaporisce le argomentazioni esposte; ciò che vediamo dal momento in cui Nikola si getta dal velivolo è un frenetico collage di analessi dove la mdp si predispone in una continua soggettiva che ha il compito di impersonificare il protagonista stesso al quale le persone che popolano la sua vita si rivolgono, non solo: perché alternati a questi mix di ricordi Djukelic posiziona una sorta di concilio separato dal flusso di reminescenza che si colloca in una dimensione a parte dove si intuisce senza che venga esplicitato a chiare lettere di come la contrattazione tra questi individui e Nikola infici la possibilità che quest’ultimo apra o meno il paracadute. Nel suo tourbillon evocativo il ragazzo non risparmia pensieri personali che mettono in luce un’indolenza verso il mondo e che in fondo in fondo sono il succo del corto: per lui suo padre è una falsa figura autoritaria e la psicoterapeuta viene semplicemente bollata come una stupida, questo ed altro rivelano un’avversione verso di sé che delinea uno stato di abbattimento e di disprezzo nei confronti di… tutto, il che pone Nikola di fronte ad un bivio non da poco.

Se quanto detto vi pare interessante sappiate inoltre che il film si assembla in un montaggio a tratti forsennato non privo di un retaggio d’altro cinema (la pupilla che rapidamente si dilata e la carrellata di immagini sequenziali ricordano Requiem for a Dream, 2000), in aggiunta si avvicendano brevi sequenze di vecchi film o cartoni animati con filmati d’archivio di gente che cammina per strada. Manca un po’ di professionalità e si sente, certe soluzioni però non sono completamente da disdegnare, alla fine l’unica affermazione insindacabile è relativa alla locandina: la parte più riuscita del prodotto che fa il suo dovere, ovvero abbindolare gli allocchi come il sottoscritto.

giovedì 10 marzo 2016

Keiko desu kedo

Volete sapere come inizia Keiko desu kedo, opera giovanile di Sion Sono datata 1997? Ve lo dico subito: quattro minuti e cinquantacinque secondi di immobile e silenzioso primo piano. È strano. Un tipo come Sono che concede così tanto alla stasi? Sarà solo l’inizio, si pensa; invece no: questo film dal minutaggio contenuto è, almeno per quanto il sottoscritto ha potuto vedere, l’opera più sperimentale del regista giapponese, e ciò non riguarda la sua acerbità perché abbiamo visto con Jitensha toiki (1991) che sebbene agli albori il suo cinema fosse comunque fondato sulla narrazione e sull’esuberanza descrittiva, qui il progetto ha proprio altra consistenza, è una sorta di ricerca contro-stilemica in cui Sono punta ad un inaspettato minimalismo, lui che al contrario è sempre stato un massimalista, asciugando qualunque risvolto oltre il rapporto che Keiko ha con lo scorrere del tempo che la separa dal proprio ventiduesimo compleanno. Troviamo comunque un accenno che riguarda una delle tipiche materie di analisi sononiane in quanto il titolo significa pressappoco Sono io, Keiko. Lo statuto ontologico degli esseri umani nelle opere di Sono è sempre risultato estremamente problematico tanto che molto spesso i suoi personaggi, semplicemente, non sono, o meglio sono un prisma di personalità alla perenne caccia di una vera essenza (e sull’argomento si rimanda ora e sempre al capolavoro Love Exposure, 2008), tant’è che Keiko sembra avere le medesime tribolazioni poiché scrive su un foglio pronome e verbo per poi cancellarli rabbiosamente.

È giusto una bagattella cinefila perché Sono punta come un segugio all’astrazione, si disinteressa di fornire una riflessione sul tempo (cosa che poteva apparire a prima vista) trasformando la propria direzione in un andamento autistico, paranoico, che finisce per comunicare attraverso un codice infantile come è lo scandire dei secondi da parte di Keiko, un’estenuante e ripetitiva filastrocca che nella reiterazione perde di qualunque significato. E credo che il punto si situi proprio nel prosciugamento semantico attuato dall’autore perché la storia di Keiko non ha niente di così clamoroso da rivelare, non c’è nulla di interessante dietro la vita monotona che conduce, è un bluff, Sono bara, non gli frega granché della ragazzina prossima a festeggiare il genetliaco, lui, per una volta, è più coinvolto dalla teoria che vuole confutare lungo la strada, si diverte a fare del metacinema, a dilatare, ad arcobalenizzare, a non-raccontare se non il cinema nudo e freddo che si rimira allo specchio.

lunedì 7 marzo 2016

White God - Sinfonia per Hagen

Presentato a Cannes ’14, così come nel 2010 era successo per Tender Son, Fehér isten è un film a cui dico un sentito no grazie. Tale risposta alla domanda di Kornél Mundruczó penso e spero che possa essere l’unica fornibile da coloro che asseriscono di essere appassionati di cinema. Perché qui c’è un moralismo imperante che pesa come un ciclopico macigno sull’annessa fruizione, a tratti davvero insopportabile per l’ostinata ricerca di quel pietismo che approderà agevolmente soltanto nell’animo dei più superficiali. Strutturalmente White God si serve di una prima mezz’ora da manualetto sceneggiaturiale: la ragazzina ha problemi col padre, il padre si arrabbia e compie l’azione più stupida, il cane comincia a gironzolare come un Vagabondo (la padroncina si chiama Lili… !), scappa dagli accalappiacani e stringe amicizia con una cagnetta. Se non fosse un film potrebbe tranquillamente essere un cartone animato disneyano. Gettate le basi, che inaugurano una tendenza dal mio punto di vista oltremodo urticante, ossia quella di antropomorfizzare l’animale, Mundruczó imbrunisce i toni e mette sul piatto la vera posta in gioco: ricordarci chi è realmente la bestia attraverso un’escalation di efferatezze ai danni del povero Hagen. Ma questo è un fatto assodato! Pur ammettendo che il discorso di Mundruczó possa andare oltre il primo impatto (il maltrattamento dei cani), e che, come forse suggerisce il titolo con la presenza di un dio bianco, il racconto sia metaforico poiché avrebbe le potenzialità per contemplare un pensiero sul colonialismo occidentale del passato e i correlati pericoli odierni sottoforma di atti terroristici che usano pretesti religiosi per ritorcersi su una mancata integrazione/accettazione, con questi tempi e con questi modi Mundruczó scade nella morale imbonitrice, che bisogno c’era?, il manicheismo con sottotitoli per vedenti non può produrre altro che indifferenza nel cuore di chi sa Pensare.

L’ultima mezz’ora dove si testimonia l’invasione romeriana dei cani per le vie della città è il classico piombo che trascina il film sul fondale. Va bene Kornél, stacchiamoci totalmente dalla presa reale, accettiamo il raid canino, ma l’esibizione della vendetta ai danni degli uomini cattivi non eleva di certo l’opera. Ribadendo la poco convincente traslazione semantica verso la politica, il disegno permane affossato dalla penuria espositiva: non ritengo che funzioni affatto il monito che starebbe lì a ricordare di come le cattive azioni in un futuro potrebbero rivalersi contro, soprattutto perché veicolato da un inattendibile attacco cinofilo. È che proprio non c’è solidità nei presupposti di Mundruczó il quale inanella una serie di angherie giustappunto in funzione della reazione vendicativa da parte delle vittime. Manca l’alito vivificatore in grado di trascendere la meccanica costruzione di un film soggiogato dalla tesi di fondo che il regista ungherese ha voluto inculcare dentro. Se dovessi dire, White God è un film morto, un’opera che verrebbe ad insegnarci con docenti impreparati una lezione arcinota.

A questo punto la carriera di Mundruczó si fa inintelligibile, pur ignorando i suoi lavori più giovanili, da Pleasant Days (2002) non c’è mai stato un segno di forte continuità, sì forse vi sono qua e là dei piccoli fili conduttori nel campo tematico, ma sicuramente non sufficienti per poter parlare di un’autorialità riconoscibile. Di ciò che ha partorito è Delta (2008) il solo film che merita un ricordo duraturo, ovviamente in Italia è arrivato White God che, al contrario, è il titolo peggiore, è significativo comunque, l’accessibilità, la bassa retorica artistica, continuano ad essere per i canali distributivi italici il lasciapassare all’interno dei circuiti di smistamento cinematografici. Per cui: no grazie, abbiamo di meglio da vedere.

mercoledì 2 marzo 2016

Pude ver un puma

Patrocinato dall’UCINE, un’università privata con sede a Buenos Aires, e diretto dall’argentino Eduardo Williams che al tempo aveva ventiquattro anni, Pude ver un puma (2011) è un film cavo, un pozzo su cui sporgere la nostra testolina per non riuscire a vederne il fondo. Non è banale metafora, dentro a questo corto aleggia qualcosa di incomprensibile: c’è l’evocazione di forme dell’anima arcane, puerili, vagabonde, a Williams non interessa la didascalia, e quindi, scadrò nella ripetizione ma non posso esimermi dal rimarcarlo, e quindi è proprio qui che prolifera l’unico cinema ancora capace di scuoterci, quello che abbandona la descrizione in favore della trasmissione attraverso codici propri della settima arte quale l’immagine che in taluni casi, e Pude ver un puma vi rientra di sicuro, risemantizza un procedere che se si fosse servito di usuali mezzi discorsivi si sarebbe auto-deprezzato. Mi pare che proprio qua, nel prendere coscienza di una possibilità incredibilmente più pura, più diretta e non schermata dalla canonicità di certi metodi appiattenti, si possa davvero esperire l’azione di vedere un film. Poi è chiaro, stiamo parlando di un piccolo lavoro girato da uno studente, eppure nonostante tutti i limiti del mondo il corto in oggetto ha il pregio capitale di accendere micce sotterranee. In questo buio artesiano io mi sento a casa.

Che cosa accada in Pude ver un puma non ci è dato saperlo, o meglio: non lo sappiamo a livello epidermico perché al contrario sul piano sensoriale un ipocentro occulto scatena forze sismiche. È ipotizzabile che Williams abbia colto in un quadro d’altroquando una discesa, una china che cominciando sui tetti di un edificio espone un progressivo annerimento scenico (la finta [o vera?] morte del ragazzino è sottolineata da un filtro che lentamente inizia a saturare di nero l’immagine), e dopo una caduta il passo successivo: le macerie, la distruzione di un paesaggio forse mentale (d’altronde il gruppo di giovani appare in balia del nulla) che propaga sensi con gli infrarossi, è cinema-rettile che striscia e si incunea dentro il cranio diffondendo un sibillino alone misterico. In un finale memorabile la presenza fantasmatica del puma si incarna nel non visto, l’inquietudine ferina bracca lo spettatore: siamo sicuri che quelle siano solo delle fronde sbattute dal vento?