Se cercavate
l’intransigenza stilistica e l’azione smitizzante di Honour of the Knights (2006), Birdsong (2008) o Story of My Death (2013), con Crespià
(2003) non troverete niente di tutto ciò. Non che il primo
film di Albert Serra sia un prodotto routinario perché come
vedremo è di una singolarità pressoché unica, di
certo però le strepitose atmosfere delle opere successive qui
latitano che è un piacere, ci troviamo al nadir di esse,
niente fotografia lucente in bianco e nero, niente dilatazione delle
riprese, niente istantanee da incorniciare nella memoria, al
contrario: colore, sciatteria, confusione. Sicuramente le
ristrettezze finanziare hanno pesato sulla realizzazione del film
tanto che, mi permetto di dire, Crespià in tali frangenti non
si discosta poi troppo da una produzione amatoriale (ad un certo
punto si vede chiaramente l’operatore riflesso nel vetro di
un’automobile: probabile svista e non dettaglio vontrieriano
voluto), e questa dimensione non esattamente professionale si deve
anche al fatto che Serra decide di insinuarsi nell’eterna diatriba
documentario/fiction creando un incrocio che da una parte si occupa
della poco interessante vita di Crespià, piccolissimo comune
spagnolo situato in provincia di Girona citato anche ne El somni
(2008) e poco distante da Banyoles, luogo natale di Serra, e
dall’altra sceglie di sperimentare spargendo delle improvvise e
strambe parentesi musicali che sono tanto divertenti quanto
incomprensibili nella veduta d’insieme.
Onestamente è
difficile capire il perché di una pellicola del genere,
in una dichiarazione a questo sito (link) Serra afferma che una volta
individuata la location capì subito che il film in procinto di
girare sarebbe stata la sua versione di Grasso è bello
(1988) o di Cry-Baby (1990). Non avendo visto i film-musical
di Waters evito di avventurarmi in paragoni alla cieca, tuttavia
chiunque di fronte a Crespià storcerebbe il naso a causa di
una vacuità che oscilla tra il futile ed il frivolo,
un’assenza di direzione che lo lascia seduto a crogiolarsi nei suoi
estemporanei siparietti popolati di macchioline umane, talmente
slegato ed episodico da risultare faticoso sebbene spalmato su neanche
ottanta minuti di durata, così minuto e autoctono da far
pensare più ad uno sghiribizzo personale di Serra che ad un
progetto pensato per il pubblico, una (sotto)specie di Our Beloved Month of August (2008) privo di seconda parte e soprattutto privo
di un impianto teorico in grado di sorreggerlo.
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