Volete sapere come inizia
Keiko desu kedo, opera giovanile di Sion Sono datata 1997? Ve lo dico
subito: quattro minuti e cinquantacinque secondi di immobile e
silenzioso primo piano. È strano. Un tipo come Sono che
concede così tanto alla stasi? Sarà solo l’inizio, si
pensa; invece no: questo film dal minutaggio contenuto è,
almeno per quanto il sottoscritto ha potuto vedere, l’opera più
sperimentale del regista giapponese, e ciò non riguarda la sua
acerbità perché abbiamo visto con Jitensha toiki
(1991) che sebbene agli albori il suo cinema fosse comunque fondato
sulla narrazione e sull’esuberanza descrittiva, qui il progetto ha
proprio altra consistenza, è una sorta di ricerca
contro-stilemica in cui Sono punta ad un inaspettato minimalismo, lui
che al contrario è sempre stato un massimalista, asciugando
qualunque risvolto oltre il rapporto che Keiko ha con lo
scorrere del tempo che la separa dal proprio ventiduesimo compleanno. Troviamo comunque un accenno che riguarda una delle tipiche materie di
analisi sononiane in quanto il titolo significa pressappoco Sono
io, Keiko. Lo statuto ontologico degli esseri umani nelle opere
di Sono è sempre risultato estremamente problematico tanto che
molto spesso i suoi personaggi, semplicemente, non sono, o
meglio sono un prisma di personalità alla perenne caccia di
una vera essenza (e sull’argomento si rimanda ora e sempre al
capolavoro Love Exposure, 2008), tant’è che Keiko sembra avere le medesime
tribolazioni poiché scrive su un foglio pronome e verbo per poi
cancellarli rabbiosamente.
È giusto una
bagattella cinefila perché Sono punta come un segugio
all’astrazione, si disinteressa di fornire una riflessione sul
tempo (cosa che poteva apparire a prima vista) trasformando la
propria direzione in un andamento autistico, paranoico, che finisce
per comunicare attraverso un codice infantile come è lo
scandire dei secondi da parte di Keiko, un’estenuante e ripetitiva
filastrocca che nella reiterazione perde di qualunque significato. E
credo che il punto si situi proprio nel prosciugamento semantico
attuato dall’autore perché la storia di Keiko non ha niente
di così clamoroso da rivelare, non c’è nulla di
interessante dietro la vita monotona che conduce, è un bluff,
Sono bara, non gli frega granché della ragazzina prossima a
festeggiare il genetliaco, lui, per una volta, è più
coinvolto dalla teoria che vuole confutare lungo la strada, si
diverte a fare del metacinema, a dilatare, ad arcobalenizzare, a
non-raccontare se non il cinema nudo e freddo che si rimira allo
specchio.
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