giovedì 10 marzo 2016

Keiko desu kedo

Volete sapere come inizia Keiko desu kedo, opera giovanile di Sion Sono datata 1997? Ve lo dico subito: quattro minuti e cinquantacinque secondi di immobile e silenzioso primo piano. È strano. Un tipo come Sono che concede così tanto alla stasi? Sarà solo l’inizio, si pensa; invece no: questo film dal minutaggio contenuto è, almeno per quanto il sottoscritto ha potuto vedere, l’opera più sperimentale del regista giapponese, e ciò non riguarda la sua acerbità perché abbiamo visto con Jitensha toiki (1991) che sebbene agli albori il suo cinema fosse comunque fondato sulla narrazione e sull’esuberanza descrittiva, qui il progetto ha proprio altra consistenza, è una sorta di ricerca contro-stilemica in cui Sono punta ad un inaspettato minimalismo, lui che al contrario è sempre stato un massimalista, asciugando qualunque risvolto oltre il rapporto che Keiko ha con lo scorrere del tempo che la separa dal proprio ventiduesimo compleanno. Troviamo comunque un accenno che riguarda una delle tipiche materie di analisi sononiane in quanto il titolo significa pressappoco Sono io, Keiko. Lo statuto ontologico degli esseri umani nelle opere di Sono è sempre risultato estremamente problematico tanto che molto spesso i suoi personaggi, semplicemente, non sono, o meglio sono un prisma di personalità alla perenne caccia di una vera essenza (e sull’argomento si rimanda ora e sempre al capolavoro Love Exposure, 2008), tant’è che Keiko sembra avere le medesime tribolazioni poiché scrive su un foglio pronome e verbo per poi cancellarli rabbiosamente.

È giusto una bagattella cinefila perché Sono punta come un segugio all’astrazione, si disinteressa di fornire una riflessione sul tempo (cosa che poteva apparire a prima vista) trasformando la propria direzione in un andamento autistico, paranoico, che finisce per comunicare attraverso un codice infantile come è lo scandire dei secondi da parte di Keiko, un’estenuante e ripetitiva filastrocca che nella reiterazione perde di qualunque significato. E credo che il punto si situi proprio nel prosciugamento semantico attuato dall’autore perché la storia di Keiko non ha niente di così clamoroso da rivelare, non c’è nulla di interessante dietro la vita monotona che conduce, è un bluff, Sono bara, non gli frega granché della ragazzina prossima a festeggiare il genetliaco, lui, per una volta, è più coinvolto dalla teoria che vuole confutare lungo la strada, si diverte a fare del metacinema, a dilatare, ad arcobalenizzare, a non-raccontare se non il cinema nudo e freddo che si rimira allo specchio.

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