Ancora più
asciutto dell’esordio Nothing Personal (2009), l’opera
seconda della polacca (ma olandese d’adozione) Urszula Antoniak ci
pone al cospetto del dramma nudo, i fronzoli non esistono: è
dramma che causa scomodità, qui che la nascita è nociva
come l’aria ospedaliera (ultimi respiri, aliti fognari, puzza di
piscio, cloroformio) che la regista filtra oltre l’apparecchio, ci
sono degli odori e dei dolori che trapassano (lo dice l’incipit
quasi vontrieriano [1], il volto ritorto e soffocato), lo si
ribadisce nel procedere autoptico con una scena che è
scolorita come la vita (la tinta rossa è solo sogno, forse), e
allora non si fa disdegnare l’idea che la Antoniak ci trasmette
nella prima porzione: fare un film su un’infermiera sola al mondo
che cerca un riscatto nell’alleviare la sofferenza altrui.
Potenzialmente c’era della politica nella tesi del film, perché
non affrontare il discorso sull’eutanasia con una prassi d’essai?
C’era. In realtà la Antoniak adopera la questione delle
iniezioni letali più per costruire il suo personaggio che per
costruire un proprio pensiero sul suicidio assistito. Ma può
comunque andare bene, si vada oltre: oltre c’è
l’accentramento completo sulla figura di Marian, Code Blue
(2011) è nel concreto un film marianocentrico (Bien de Moor è
frusta e fiore avvizzito), disinteressato perciò ad esportare
una riflessione più alta, concentrato unicamente sul
mondo-solitudine della donna (il tic maniacale di conservare gli
oggetti dei defunti è un sintomo che rimbalza tra la tenerezza
e il feticismo).
La solitudine sembra
apparire come un motivo di studio per la Antoniak, infatti dopo
alcuni accenni (l’autobus, il citofono) il film segue pedissequo le
orme del suo predecessore allestendo l’incontro tra due esseri
umani soli, ecc. Dalla scena posticcia dello stupro vissuto on air
con lui (è Lars Eidinger visto in Everyone Else, 2009),
si narra lo schema d’incontro fortuito, tutto è molto rapido
(il film non durerà neanche settanta minuti netti), troppo:
qui il giudizio mi si è biforcato: una parte ha gradito la
falsa pista rischiarante del possibile feeling amoroso (la cordialità
alla festa, il film in comune) spazzato via dalla ferocia conclusiva,
e quindi: nessuna speranza, l’umanità fa schifo e via
dicendo, l’altra parte invece ha ragionato sul finale in sé e su
ciò che lo precede, e analizzando al setaccio al di qua
della rete restano i dati concreti: una buona forma e del materiale
con spunti di potenziale a cui si è preferito seguitare con
tragediette dentro il particolare, quando invece è
l’Universale che fa la differenza.
Nel riproporci una
versione assiderata de La pianista (2001), d’altronde sfido
chiunque a non porre in parallelo la de Moor e la Huppert entrambe in
cerca di viscosi residui postcoitali, Urszula Antoniak pare aver
precisato quale sia la sua idea di cinema, un telo funebre
intrecciato dalla fibra del dramma e da quella di un’ipotetica
mitigazione, finora sempre venuta meno. Di più non vi è
riscontro. Si rimane in attesa di altri elementi per valutare meglio.
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[1] Sarà una
coincidenza il fatto che quando Marian si reca in un negozio di dvd
vediamo chiaramente quello di Antichrist [2009]?. Le
coincidenze, come dicono i due protagonisti di Code Blue, sono
divertenti.
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