Chi ha visto Finisterrae
(2010) sa molto bene che una delle componenti principali del film era
quella di smascherare il proprio nucleo, in ogni frangente Caballero
non smetteva mai di ricordarci che quelli in scena non erano due
fantasmi, che la loro ectoplasmicità rimaneva in un immaginario del
tutto aleatorio, lì vedevamo il concreto, quello che c’era sotto
(il lenzuolo: i piedi!), non solo anatomicamente parlando, ma anche
emotivamente: i due fantasmi provavano sensazioni a tutto tondo. In
sostanza la tendenza di Finisterrae a togliere il velo della
macchinazione è la stessa che sottende Ancha es
Castilla/N'importe quoi (2014), anzi se nel lungometraggio del
2010 oltre all’intento para-teorico c’erano delle parentesi
(diciamo) meditative, in questo cortometraggio Caballero è
esclusivamente impegnato a farci vedere i pezzi che compongono il suo
giochino. La voluta e ricercata
esposizione dello spirito artigianale che permea l’opera non lesina
acutezze davvero ingegnose, e quindi sì al design dei
personaggi-burattini, (implementato anche dalla loro straniante
presenza in larga scala), strasì poi alla corrente autoironica che
fidelizza (la battuta su Wikileaks sottolineata dalle risate finte;
le cicche gettate dal vicino di sotto), e sì sopra ad ogni altra
riflessione allo spirito anarchico che impregna il corto, non so se
si possa parlare di “libertà creativa” ma di sicuro, a fine
visione, è doveroso rendere a Caballero i meriti di un oggetto dalla
traiettoria sghemba e improbabile, un balocco che cita e che scappa
via, un’eventualità artistica che rimbalza da un’oscurità dove
gli sgorbi della Troma invocano l’avvento del dio
Švankmajer.
Ma c’è dell’altro
che accomuna Finisterrae e Ancha…: è una faccenda
che esula dal giudizio in sé del film ma che comunque ne potrebbe (e
per quanto mi riguarda lo fa) intaccarne il valore. Sergio Caballero,
catalano di Barcelona, non è un regista convenzionale: lui non è un
regista, è piuttosto un’artista cross-mediale (?) che ha come
propria fucina dell’estro il Sónar,
Festival di musica elettronica che si tiene ogni anno verso giugno di
cui Caballero è fondatore e attuale organizzatore. Ora, a leggere le
parole di Caballero (link) i suoi lavori di regia non sarebbero altro
che delle propaggini della kermesse festivaliera a testimonianza
dell’apertura e dell’interscambiabilità artistica che attraversa
tale evento. Sicuramente è così. Però, ahimè, l’orgoglio
cinefilo è spinto all’insurrezione perché accettare l’ombra del
Sónar su Ancha…,
come sugli altri due (idem per La distancia
[2014]), significa accettare la vera natura dei suddetti film, che è
quella di essere un Prodotto. Non c’è traccia di cinema
all’interno, c’è solo l’esteriorità della patina che ha la
funzione di farsi un veicolo di comunicazione. La coppia di fantasmi, la famiglia di
mostri, il trio di nani, diventano aridi mezzi per la mercificazione
del Festival che finiscono stampati su locandine, flyer e
quant’altro. In questo modo, a mio avviso, anche quella carica
piacevolmente indisciplinata citata nel primo paragrafo si infossa,
si riduce per far posto all’export.
Il valore creativo si prostituisce e
la memoria eidetica rischia di doversi abbeverare alla fonte più
putrescente: quella della pubblicità.
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