Presentato a Cannes ’14,
così come nel 2010 era successo per Tender Son, Fehér
isten è un film a cui dico un sentito no grazie. Tale
risposta alla domanda di Kornél Mundruczó penso e spero
che possa essere l’unica fornibile da coloro che asseriscono di
essere appassionati di cinema. Perché qui c’è un
moralismo imperante che pesa come un ciclopico macigno sull’annessa
fruizione, a tratti davvero insopportabile per l’ostinata ricerca
di quel pietismo che approderà agevolmente soltanto nell’animo
dei più superficiali. Strutturalmente White God si
serve di una prima mezz’ora da manualetto sceneggiaturiale: la
ragazzina ha problemi col padre, il padre si arrabbia e compie
l’azione più stupida, il cane comincia a gironzolare come un
Vagabondo (la padroncina si chiama Lili… !), scappa dagli
accalappiacani e stringe amicizia con una cagnetta. Se non fosse un
film potrebbe tranquillamente essere un cartone animato disneyano.
Gettate le basi, che inaugurano una tendenza dal mio punto di vista
oltremodo urticante, ossia quella di antropomorfizzare l’animale,
Mundruczó imbrunisce i toni e mette sul piatto la vera posta
in gioco: ricordarci chi è realmente la bestia attraverso
un’escalation di efferatezze ai danni del povero Hagen. Ma questo è
un fatto assodato! Pur ammettendo che il discorso di Mundruczó
possa andare oltre il primo impatto (il maltrattamento dei cani), e
che, come forse suggerisce il titolo con la presenza di un dio
bianco, il racconto sia metaforico poiché avrebbe le
potenzialità per contemplare un pensiero sul colonialismo
occidentale del passato e i correlati pericoli odierni sottoforma di
atti terroristici che usano pretesti religiosi per ritorcersi su una
mancata integrazione/accettazione, con questi tempi e con questi modi
Mundruczó scade nella morale imbonitrice, che bisogno c’era?,
il manicheismo con sottotitoli per vedenti non può produrre
altro che indifferenza nel cuore di chi sa Pensare.
L’ultima mezz’ora
dove si testimonia l’invasione romeriana dei cani per le vie della
città è il classico piombo che trascina il film sul
fondale. Va bene Kornél, stacchiamoci totalmente dalla presa
reale, accettiamo il raid canino, ma l’esibizione della vendetta ai
danni degli uomini cattivi non eleva di certo l’opera. Ribadendo la
poco convincente traslazione semantica verso la politica, il disegno
permane affossato dalla penuria espositiva: non ritengo che funzioni
affatto il monito che starebbe lì a ricordare di come le
cattive azioni in un futuro potrebbero rivalersi contro, soprattutto
perché veicolato da un inattendibile attacco cinofilo. È
che proprio non c’è solidità nei presupposti di
Mundruczó il quale inanella una serie di angherie giustappunto
in funzione della reazione vendicativa da parte delle vittime. Manca
l’alito vivificatore in grado di trascendere la meccanica
costruzione di un film soggiogato dalla tesi di fondo che il regista
ungherese ha voluto inculcare dentro. Se dovessi dire, White God
è un film morto, un’opera che verrebbe ad insegnarci con
docenti impreparati una lezione arcinota.
A questo punto la
carriera di Mundruczó si fa inintelligibile, pur ignorando i
suoi lavori più giovanili, da Pleasant Days (2002) non
c’è mai stato un segno di forte continuità, sì
forse vi sono qua e là dei piccoli fili conduttori nel campo
tematico, ma sicuramente non sufficienti per poter parlare di
un’autorialità riconoscibile. Di ciò che ha partorito
è Delta (2008) il solo film che merita un ricordo
duraturo, ovviamente in Italia è arrivato White God
che, al contrario, è il titolo peggiore, è
significativo comunque, l’accessibilità, la bassa retorica
artistica, continuano ad essere per i canali distributivi italici il
lasciapassare all’interno dei circuiti di smistamento
cinematografici. Per cui: no grazie, abbiamo di meglio da vedere.
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RispondiEliminaD'accordo. Questo il peggiore insieme al precedente, Pleasant Days (2002) direi il migliore insieme a Delta!
RispondiEliminaVisto che casualmente qua sotto c'è una cosa come Pude ver un puma, io dico: guardate Pude ver un puma! (o Pigs), e sarà lampante la differenza tra un'opera reazionaria e una che, seppur girata da uno studente, è molto di più e molto oltre.
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