Durante un provino per il
ruolo di attore un giovane uccide una ragazza e svanisce nel nulla. È
l’inizio di una storia colma di morte.
Due anni dopo Delta
(2008), film meritevole che cristallizzava la forma accompagnata da
un sottotesto bello pregno, e otto dopo Pleasant Days (2002),
Kornél Mundruczó torna dietro alla macchina da presa (e
questa volta anche davanti) per sviscerare tematiche comunque già
affrontate nelle pellicole precedenti. In Szelíd teremtés
- A Frankenstein-terv il regista ungherese costruisce una vicenda
tutta impostata sui nessi famigliari, un concentrato di segreti,
legami allacciati e poi immediatamente spezzati, che almeno nella
prima mezz’ora funziona: già il fatto che Mundruczó
sia presente sulla scena desta l’attenzione, in più
trasportandosi nella diegesi con vesti identiche a quelle reali (è
un regista in cerca di un attore che non abbia bisogno di recitare in
modo che sia la camera a renderlo vivo) si sente, o almeno ci
sarebbero le premesse, per avvertire profumo di cortocircuitazioni
metafilmiche, e in effetti lo spazio del casting, corroborato
dall’omicidio in diretta ha le potenzialità di
schiudere porte teoretiche; anche le sorprese tramiche, sebbene
nella sostanza non troppo distanti da colpi di scena soapoperistici
(“mamma, sono tuo figlio!), fanno premettere e promettere cose
piuttosto buone.
Ma il protegé
di Béla Tarr una volta svelati gli altarini non tiene più
il film che si incanala in un tepore sordo ai risvolti drammatici
illustrati. Forse è la glacialità con cui il
figlio-automa si rapporta con chi gli sta intorno (non solo con la
madre ma anche con la ragazza che vorrebbe di botto prendere in
dote), forse è la mancanza di polpa ad una vicenda che si
rivela scarna con ancora un’oretta buona di proiezione, fatto sta
che le morti sullo schermo, rappresentate da un occhio che per
rendere merito a Mundruczó sa fare il suo mestiere, hanno
moventi esili (per non parlare del primo assassinio che si guadagna
un grosso “perché?”), connessi debolmente da questioni
famigliari, repentini e indolori, privi di antefatti convincenti, e
di conseguenza anche aridi di risvolti intensificanti, prova ne è
che il finale, teatro, fra l’altro, di uno svenimento
incomprensibile, decresce a vista d’occhio e si auto-castiga con
l’evento conclusivo che si aggira tra l’ordine della
prevedibilità e quello dell’improduttività.
Il primo decennio del
nuovo millennio non si chiude in modo esaltante né per
Mundruczó né per un altro regista magiaro (pensiamo ad
I Am Not Your Friend, 2009), peccato, entrambi però si
rifaranno in futuro, soprattutto Pálfi, autore che già
alle origini manifestava una certa, eccentrica, tendenza
all’innovazione e che nel 2012 troverà ampi consensi con
Final Cut - Ladies & Gentlemen. Di Mundruczó, invece,
si narrerà dello sbarco italico con White God - Sinfonia per Hagen (2014). Se qualcuno ha visto, dica.
Nessun commento:
Posta un commento