Il Giudizio universale
sta per giungere: l’acqua e il fuoco sopravanzano, i morti
strisciano fuori dalle loro tombe, i disordini proliferano. Mazayev,
per ingraziarsi la bontà del Signore, decide di aiutare a
tutti i costi dei bambini intrappolati in un orfanotrofio.
Il cinema di Lopušanskij è, in ogni sua manifestazione, cinema dell’Apocalisse,
dell’implacabile Fine che si abbatte sull’Uomo inerme, non ci
sono uscite di sicurezza: anche Russkaya simfoniya
(1994), opera di mezzo non facilmente esportabile, si adegua alla
legge di matrice escatologica del regista allievo di Tarkovskij.
Cinque anni dopo Posetitel muzeya
(1989) il mondo di Lopušanskij è ancora, o forse mai come ora
perché nelle sue pellicole precedenti il disastro era già
accaduto, sull’orlo del collasso e in un quadro tipicamente
disperato inserisce questo strambo protagonista che si differenzia un
poco dai personaggi che di solito calcano le sue scene. Mazayev
ha infatti una percentuale di stravaganza che rappresenta una mezza
novità, soprattutto se incastrata in un contesto che è
sì da opera post-atomica ma che non dimentica mai di attingere
dal grottesco e dalla satira (c’è un sosia di Gorbaciov che
ramazza con la scopa). Allora, l’idea di partenza, ossia quella che
vede Mazayev preoccupato per l’imminente giudizio divino e
fomentato dalla questione dei bimbi vista da lui come una buona
occasione per redimersi, viene stravolta da uno sconnesso succedersi
di situazioni in cui Lopušanskij sbraca di brutto e si perde in meandri inintelligibili se non si
appartiene, o non si conosce approfonditamente, la galassia
ex-sovietica che al tempo in cui è stato girato il film era ex
da pochissimo tempo.
Tra oscure nonché
bislacche cartoline infernali che parlano di politica, religione e
cultura russa, si erge l’ultimo baluardo a cui appendersi, che è
quello della forma perché Konstantin Lopušanskij è un
maestro e qui fornisce un’ulteriore prova di talento, molto raro:
quello di saper deformare l’immagine attraverso le luci e quindi
di, letteralmente, abbacinare con i suoi corpi fotosensibili, uomini
inzuppati in un ambiente sanguinaccio che li colora di rosso slavato,
aloni giallognoli per crepuscoli interminabili, oscurità
fittissime con chiarori laceranti che scoprono profili, contorni,
particolari; senza dimenticare che uno Lopušanskij sa trasferire su
pellicola la matassa catastrofica anche con pochi elementi a
disposizione (un armadio usato come barca in un mare di tenebra; gli
incendi oltre le finestre), e che due, quando vuole, sa essere
colossale con scene di massa come quella della battaglia dall’enorme
e sontuosa portata stilistica che, con l’apparizione del coro sulla
cima della collina e di Mazayev inginocchiato ai suoi piedi, diventa
sospensione, si eleva nelle nostre pupille e sale su.
Chi sia Konstantin
Lopušanskij non ci è dato saperlo. È facile e in
qualche modo bello raffigurarselo come un Golem solitario disperso in un
luogo ageografico della Russia più recondita, seduto su una
sedia sgualcita al tavolino della sua pericolante isba, e lì
generare cartoline vaporose e radioattive come il finale di Dead Man’s Letters (1986), tra l’altro
ripreso in parte qua, o le distorsioni ottiche di The Ugly Swans
(2006), e poi dormire un sonno letargico, fatto di polvere e
ragnatele, e sussulti: The Role
(2013), e poi ancora buio, per chissà quanto tempo.
Nessun commento:
Posta un commento