Appena tre anni dopo Dead Man’s Letters (1986) Lopušanskij pone nuovamente il suo occhio su un mondo di macerie e dolore dove non è una guerra nucleare a trasformare la Terra nella succursale dell’inferno, ma lo scioglimento dei ghiacciai. Il titolo che tradotto suonerebbe più o meno come Un visitatore al museo, allude all’arrivo di un “turista” nella periferia soffocata da montagne di rifiuti che vuole sfruttare la bassa marea per raggiungere una misteriosa città sommersa dalle acque. Nel frattempo la comunità di reietti che vive rinchiusa in una riserva aspetta un salvatore.
Posetitel muzeya (1989) cerca di attrarre a sé lo spettatore fin dai primi minuti con il protagonista che voltandosi repentinamente sul traghetto chiede più volte “chi sei?”. Delirio di un pazzo visionario o, appunto, tentativo di coinvolgimento finanche forma di partecipazione nel contesto filmico? Entrambe le cose, probabilmente.
E la partecipazione emotiva c’è fin dall’inizio, magari non tocca le vette di disperazione del precedente film, ma c’è e segue di pari passo una narrazione abbastanza classica dove l’idea del viaggio verso il Museo è l’evento macro al quale si affianca la presenza della comunità di mostri reclusi in un recinto che col passare dei minuti assume sempre più una posizione di primo piano.
In questo quadro si staglia una netta distinzione tra le persone “normali” e i freaks: i primi hanno abbandonato dio inteso come insieme di valori per affidarsi alla razionalità, i secondi hanno ancora un culto ridotto al lumicino di una e una sola preghiera: “lasciami uscire da qui”, nella speranza che arrivi un uomo in grado di raggiungere la Collina della città sommersa e salvarli tutti.
Lopušanskij esalta le sue doti visionarie affidando cromaticamente il set al rosso come colore dominante che filtra oltre le finestre delle abitazioni a causa dei fuochi incessanti che tengono lontani i balordi deformi. Il buio si riempie di sfumature e ghirigori rossastri in grado di illuminare di striscio i volti ossuti, spigolosi e smagriti degli attori in una resa complessiva che mi ha riportato all’esteticamente superbo Almanac of Fall (1984) di Tarr.
Negli ambienti esterni si scontrano due elementi naturali come il fuoco e l’acqua del mare per creare un forte contrasto pressoché artistico. Inoltre il trenino che cigolante viaggia lungo territori abbandonati, la fabbrica che appare davvero come un girone infernale, le scene di massa che hanno un che di kolossale e gli enormi, maccheddico, immensi cumuli di spazzatura che rendono gli uomini piccolissimi, testimoniano un cinema pensato da un autore di indiscutibile valore.
Fino a qui, come diceva qualcuno, tutto bene.
Quando però il regista inizia a giocare a carte scoperte rivelando la vera natura del protagonista e decentrando un poco il tema del viaggio per dare più spazio alla folla di emarginati, il film si sfalda e degenera in una spirale mistico-religiosa di jodorowskiana memoria rivelando un sottotesto che si allontana dalla fantascienza per sondare territori te(le)ologici in un delirio/martirio bello da vedere per l’inquietante cerimonia d’investitura e per le riprese nel deserto della bassa marea, ma un po’ freddino a causa dell’eccessiva lunghezza da cui è costituito.
Il film ha però un notevole colpo di coda che vede il protagonista giungere finalmente ai piedi di Dio. La domanda “chi sei” non trova risposta, Cristo non è sulla croce perché non è morto per salvarci, e il vento senza fine spazza qualunque residuo di speranza. Alla fine resta l’uomo solo e impazzito in una valle di rifiuti che corre verso un tramonto accecante. La metafora è, al di là di tutto, comunque ficcante.
Posetitel muzeya (1989) cerca di attrarre a sé lo spettatore fin dai primi minuti con il protagonista che voltandosi repentinamente sul traghetto chiede più volte “chi sei?”. Delirio di un pazzo visionario o, appunto, tentativo di coinvolgimento finanche forma di partecipazione nel contesto filmico? Entrambe le cose, probabilmente.
E la partecipazione emotiva c’è fin dall’inizio, magari non tocca le vette di disperazione del precedente film, ma c’è e segue di pari passo una narrazione abbastanza classica dove l’idea del viaggio verso il Museo è l’evento macro al quale si affianca la presenza della comunità di mostri reclusi in un recinto che col passare dei minuti assume sempre più una posizione di primo piano.
In questo quadro si staglia una netta distinzione tra le persone “normali” e i freaks: i primi hanno abbandonato dio inteso come insieme di valori per affidarsi alla razionalità, i secondi hanno ancora un culto ridotto al lumicino di una e una sola preghiera: “lasciami uscire da qui”, nella speranza che arrivi un uomo in grado di raggiungere la Collina della città sommersa e salvarli tutti.
Lopušanskij esalta le sue doti visionarie affidando cromaticamente il set al rosso come colore dominante che filtra oltre le finestre delle abitazioni a causa dei fuochi incessanti che tengono lontani i balordi deformi. Il buio si riempie di sfumature e ghirigori rossastri in grado di illuminare di striscio i volti ossuti, spigolosi e smagriti degli attori in una resa complessiva che mi ha riportato all’esteticamente superbo Almanac of Fall (1984) di Tarr.
Negli ambienti esterni si scontrano due elementi naturali come il fuoco e l’acqua del mare per creare un forte contrasto pressoché artistico. Inoltre il trenino che cigolante viaggia lungo territori abbandonati, la fabbrica che appare davvero come un girone infernale, le scene di massa che hanno un che di kolossale e gli enormi, maccheddico, immensi cumuli di spazzatura che rendono gli uomini piccolissimi, testimoniano un cinema pensato da un autore di indiscutibile valore.
Fino a qui, come diceva qualcuno, tutto bene.
Quando però il regista inizia a giocare a carte scoperte rivelando la vera natura del protagonista e decentrando un poco il tema del viaggio per dare più spazio alla folla di emarginati, il film si sfalda e degenera in una spirale mistico-religiosa di jodorowskiana memoria rivelando un sottotesto che si allontana dalla fantascienza per sondare territori te(le)ologici in un delirio/martirio bello da vedere per l’inquietante cerimonia d’investitura e per le riprese nel deserto della bassa marea, ma un po’ freddino a causa dell’eccessiva lunghezza da cui è costituito.
Il film ha però un notevole colpo di coda che vede il protagonista giungere finalmente ai piedi di Dio. La domanda “chi sei” non trova risposta, Cristo non è sulla croce perché non è morto per salvarci, e il vento senza fine spazza qualunque residuo di speranza. Alla fine resta l’uomo solo e impazzito in una valle di rifiuti che corre verso un tramonto accecante. La metafora è, al di là di tutto, comunque ficcante.
devo ancora visionare Dead Man's Letters, ma già mi sa che questo Lopushansky sia tanto una scheggia impazzita nel panoroma sovietico dell'epoca.
RispondiEliminaEh, non ti so dire perché non ne so granché di cinema sovietico. Ho visto tutto quello che internet permette di vedere di suo (due film sono irrecuperabili) e penso che meriti la tua attenzione. Dead Man's Letters è il suo capolavoro.
RispondiEliminaQuesto commento è stato eliminato dall'autore.
RispondiEliminaerrore di battitura...
RispondiEliminaad ogni modo, seguirò il consiglio, cominciando dal capolavoro.
Capolavoro circoscritto alle sue produzioni eh, non mi sentirei di fregiarlo di una tale onoreficenza a livello generale.
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