Un
foto-film, tale è l’accezione fornita da Fiona Tan alla sua opera
che, tradotto per voi lettori, significa una messa in sequenza di
fotografie debitamente accompagnate da un coerente comparto sonoro.
La Tan, un’artista metà cinese e metà australiana prestata al
cinema giusto per Ascent (2016) e per pochi altri titoli, non
inventa niente al punto che, rispetto ad altre recensioni lette, il
sottoscritto non se la sente di catalogare il suddetto esemplare come
“sperimentale”, ciò non deprezza il film che, anzi, si distingue
per raffinatezza e profondità argomentativa. La lunga serie di
istantanee ha come assoluto protagonista il monte Fuji, magari non in
tutte ma nella quasi totalità il famoso vulcano è sempre impresso
sulle diapositive, non si contano le angolazioni, le modalità (da
scatti professionali a immagini da rullino di un iPhone) e i periodi
(dal lontano passato al presente) in cui la montagna è stata colta,
si conta, invece, la meraviglia estetica di alcune vedute che forse,
al di là di una bellezza insindacabile, è implementata
dall’organizzazione narrativa scelta dalla regista, Ascent
è infatti un dialogo che si protrae dall’inizio alla fine tra una
donna che parla inglese ed il suo partner giapponese ora deceduto che
racconta, tra le varie cose, della personale scalata sul Fuji. La
struttura è di quelle epistolari con una voce (/lingua) che si
alterna all’altra toccando una varietà di temi in equilibrio tra
l’intimità della perdita definitiva e la vastità del mondo,
artistico, sociale, politico circostante. Tecnicamente val la pena
chiedersi se un metodo che si avvale solo del concatenarsi di
frammenti riesce a conservare la tipica fluidità del cinema, e la
risposta che mi do è affermativa, complici gli effetti sonori la
percezione che si ha del falso movimento in video è di uno
scorrimento, di un andare, di un fuoriuscire.
Ascent
elabora o comunque tratta in maniera malinconica una materia abissale
come il lutto, però la portata a disposizione dello spettatore non
si esaurisce nel legame tra lui e lei, in realtà c’è un lato che
potremmo definire alla lontana documentaristico dove viene compiuto
un vero e proprio excursus sul Giappone ponendo il monte Fuji al
centro di ogni dissertazione, quindi, oltre ad essere visivamente il
nodo della pellicola, il rilievo è anche la stella concettuale che
attrae a sé una gamma di esplorazioni dal carattere storico:
folklore tradizionale, storia della fotografia, storia contemporanea
(pensate: durante l’occupazione americana nei film nipponici il
monte Fuji veniva oscurato perché ritenuto un simbolo troppo
patriottico), è chiaro, per noi esterni, che l’importanza di
questa cima non sia soltanto orografica, c’è una grana spirituale,
un catalizzatore di energie, un Olimpo non Mediterraneo, insomma, il
peso semantico che Fiona Tan dona al monte Fuji è di molto superiore
a quello che gli si potrebbe dare guardando distrattamente la
cartina. Nell’idea di una trascendenza terrena si potrebbe quasi
interpretare la salita verso la vetta di Hiroshi come un’ascesa
diretta ad una dimensione più alta: a un aldilà. Capirete allora di
quali potenziali e perlustrabili aperture è fornito Ascent,
un elegante oggetto che si rende cinema pur non avendone gli abituali
connotati, che sa percorrere con poesia un’arteria sentimentale
collocata nel sistema circolatorio di un Paese tra l’ieri e l’oggi,
che fa riverberare echi di fragile umanità in un orizzonte enorme e
indescrivibile. Promosso.