lunedì 27 maggio 2019

The Nightmare

Subito dopo un rave Tina, giovane berlinese come tante, inizia ad essere perseguitata da una strana creatura…

Ispirato dalle suggestioni di Jan Švankmajer e dei fratelli Quay, Achim Bornhak, in arte AKIZ, ha covato l’idea-Der Nachtmahr (2015) molto tempo prima della sua uscita (avvenuta a Locarno), correva infatti il 2004 e il regista, all’epoca residente a Los Angeles, aveva dato sfogo alle sue abilità di scultore e alle sue ossessioni incubiche costruendo una specie di statua che apparisse allo stesso tempo “molto molto vecchia e molto molto giovane”, questa è stata la miccia creativa a cui è seguita negli anni l’edificazione di una storia che potesse mettere in rapporto l’essere umanoide con l’umanità circostante, nello specifico un’esile ragazzina dedita alla techno/hardcore con una vita perfettamente complessa come quella di tutti gli adolescenti. Riepilogo: un regista pressoché sconosciuto con alle spalle alcuni titoli (si immagina) dimenticabili, dirige un’opera a basso costo la cui trama potrebbe essere quella di un b-movie anni ’80, in più vi appone una lente da coming-of-age su cui lo spettatore è necessariamente chiamato a ragionare sopra.

Da suddette premesse Der Nachtmahr poteva anche essere peggio di quello che invece è, a conti fatti Bornhak non sembra essere esclusivamente interessato ad una matrice “horror” dell’opera poiché preferisce approfondire la faccenda da un punto più mentale adoperandosi in un mind-game privo di soluzioni definite, e che sia un titolo aperto, un piccolo labirinto dotato di diverse entrate ma non di altrettante uscite, lo si può comprendere dalla parte introduttiva con il party in piscina dove iniziano a scombinarsi i piani temporali se non perfino quelli dimensionali (il tizio mostra sullo smartphone il video dell’incidente che di lì a poco andrà a compiersi) facendo particolare leva sulla fragilità psicologica della protagonista che si riversa diegeticamente in una impossibilità a capire che cosa sia reale (per lei e per noi) e cosa no. Beninteso, non vi è nulla di così originale da far urlare al miracolo, in particolare diventa un po’ stucchevole la fase “io vedo il mostro e voi no ma come è possibile era proprio qua?!”, una porzione che una volta lasciata alle spalle accentra l’attenzione su Tina, su questo Gollum anchilosato e sulla loro strettissima interdipendenza. È qui che Der Nachtmahr squaderna un ventaglio di possibili interpretazioni: il film potrebbe parlarci di bulimia visto che la bestiola mangia di continuo; il film potrebbe suggerirci di questioni annesse alla gravidanza (il copyright è di Antonio Pettierre [link]); oppure potrebbe essere la messa in scena di una vita ad un passo dalla morte a seguito del tremendo scontro con l’auto, e qui il segmento conclusivo con la creatura-autista (/psicopompo) diverrebbe un finale amaro. Tra le varie interpretazioni penso sia condivisibile sostenere che ogni soluzione non può comunque prescindere dal laccio Tina-creatura e da come quest’ultima rappresenti qualcosa situato nell’anima della ragazza.

Ci sono ad ogni modo dei segnali di uno stile allineato ad altri “stili” stravisti (la tendenza a fare del perturbante un mockumentary casalingo) dove ad onor del vero Bornhak si prodiga nel tentativo di fornire una cosiddetta atmosfera all’interno dell’abitazione/corrispettivo celebrale di Tina, e quindi senso di prigione (la scacchiera in cucina), di perdizione (la gestione del comparto ottico ha un suo perché nel rimbalzo tra i rave e la cameretta ancor più psichedelica dei luoghi danzerecci), ecc. Essendo un prodotto narrativo The Nightmare si presta a contestazioni razionali su cui ci si sforza a chiudere un occhio (tipo: la figlia inizia a dare segni di instabilità e i genitori se ne vanno di casa per una notte? Oppure: come faceva Tina a sapere che il suo amichetto si trovava proprio in quel letto?), vabbè vabbè, applicare il metro della logica ad un’opera del genere è da antipatici, in fondo dalle premesse che aveva non ha irritato neanche troppo il sottoscritto (nemmeno nell’illustrare una tipica gioventù divisa tra alcol e droga), in definitiva penserei a Der Nachtmahr come il rifiatare dopo una lunga corsa cinefila destinata a riprendere nell’immediato.

lunedì 20 maggio 2019

No No Sleep

Mi risulta impossibile esprimere concetti originali su Wu wu mian (2015) poiché quanto avrei da dire l’ho già ampiamente sottolineato affrontando sia Walker (2012) che Journey to the West (2014), ed una tale personale tendenza a non trovare nuovi appigli interpretativi per rendere ciò che state leggendo diverso da ciò che avete già letto è sintomatico di come il progetto “monaco errante” di Tsai Ming-liang sia un’idea chiusa e autoreferenziale di cinema oltre che, e qui la ferita si presenta immedicabile, ripetitiva in un modo che ti delude proprio: Tsai da buon auteur può permettersi di filmare i suoi capricci più intransigenti ma, eccheddiamine!, l’importante è che partorisca sempre buoni film a prescindere da quale sia il formato, la tecnica, la storia o la non-storia che li sostanzia. Ora, con l’ennesima riproposizione di Lee Kang-sheng in outfit monacale che bradipescamente passeggia in una città percorsa ad una velocità supersonica si dà una lettura facile dell’antitesi che fonda l’intero disegno, così come è facile l’accostamento tra i minuti iniziali con Lee che avanza flemmatico su un ponte e il successivo cambio scena con la camera di Tsai posizionata su un treno che fende la metropoli sberluccicante, onestamente non mi aspettavo che il regista taiwanese potesse scivolare nel manifesto, nel lampante, impressioni che se inserite nella cornice iterativa precedentemente vista incrementano di non poco il carico di insoddisfazione.

Potrete pensare che insomma, non sarà l’avvicinare due sequenze visibilmente opposte ad inquinare il gradimento spettatoriale, certamente no se non fosse che No No Sleep dura un trentaquattro minuti di cui quindici si concentrano proprio sull’esposizione del suddetto incompatibile binomio. Il film non si solleva nemmeno dopo perché Tsai, sulla scorta di Journey to the West, pone un altro essere umano nell’orbita del religioso tartarughesco, un tempo avremmo potuto sperticarci in lodi enfatiche sulla capacità mingliangana nel modellare artisticamente incontri fra uomini soli (immagino il me stesso di un tempo battere sulla tastiera queste parole: “… e nella fissità del quadro all’interno della piscina si è quasi spinti ad avvicinare le due anime sullo schermo, a desiderare che il cinema possa essere ancora un luogo di unione”), però, purtroppo o per fortuna, le cose cambiano irrimediabilmente e nello sfiorarsi tra Lee e l’altro tizio di lirismo ne ho visto ben poco, ciò che si vede è un più prosaico atto onanistico di un direttore d’orchestra che continua a concedere bis senza che nessuno glieli chieda, e sulla debolissima immagine contrapposta del finale dentro l’albergo capsulare dove il giovane non prende sonno (“ooooh, magari sta pensando a Kang-sheng ”) mentre il protagonista dorme della grossa, non si riesce ad aggiungere niente, se non uno sbadiglio.

P.S.: questo commento risale all’estate del 2017 (sì, avete letto bene) e ad oggi Tsai ha dato alla luce altri esemplari del suo cinema. In tutta onestà non so se li vedrò mai, ad ogni modo sarei ben felice, eventualmente, di rimangiarmi ogni parola del presente scritto.

lunedì 13 maggio 2019

August Winds

Appare più capiente del successivo Neon Bull (2015) l’esordio nella finzione di Gabriel Mascaro, perché Ventos de Agosto (2014), pur mantenendo uno strato di base costituito da un preciso focus sulla povertà della realtà brasiliana (aspetto che ritornerà anche nel suo successore), abbraccia tematiche esistenziali dall’ampio respiro che poi è anche l’ultimo, quello definitivo, e quindi affrontando questioni legate alla morte quanto entità incombente su un villaggio in riva al mare, e innestando tale argomento all’interno di ulteriori rii di non meno importanza come la necessità di evadere sognando una professione “artistica”, ecco che la plasmazione di August Winds contempla una certa profondità, ciò non toglie il fatto che il film sia lontano da complessità ed elucubrazioni opprimenti, il suo procedere lineare gli dà una dignità sufficiente che si percepisce nel non voler strafare da parte del regista il quale concede al massimo qualche vezzo estetico rimando con alcune inquadrature similari (il carretto, la canoa) che forniscono una musicalità ed una coesione allo sviluppo visivo e narrativo dell’opera.

Si è detto della componente funebre che piano piano prende il centro del palcoscenico, Mascaro è avveduto nell’instillare quella che è più che altro un’idea di morte all’interno della vita del paese, azzerando le spiegazioni può capitare che un ragazzo trovi sul fondale-tomba del mare il teschio di un vecchio deceduto molti anni prima e che, subito dopo, lo stesso giovane incappi nel cadavere di un altro povero cristo abbandonato a se stesso. Senza che vi siano moniti o memento mori di sorta, a questo adombramento che sa di inevitabilità e che stride con i desideri di una ragazza il cui corpo è un voluttuoso Eden, si assiste con benaccetto piacere anche perché Mascaro, pur sempre figlio del Sudamerica e quindi uomo e artista cresciuto in una terra che dal punto di vista letterario ha spesso tracimato nella magia del surreale, non risparmia piccole fessure sul fantastico con la questione del mare che sta mangiando tratti di costa e che nel luogo della vicenda ha sottratto ad un cimitero il suolo dell’eterno riposo dando vita (?) ad un Giorno del Giudizio appena suggerito, un evento fuori dall’ordinario che nel mood del film non stona in relazione alla durezza della normalità e che anzi fortifica tutto il discorso contenuto tra le due più grande pulsioni dell’umanità: quella verso l’amore e quella verso la morte.

Mascaro, che si concede anche un cammeo in una parentesi più scollegata vestendo i panni di un metereologo intento a registrare il vento, scova come molti altri suoi colleghi latinoamericani (mi vengono in mente Reygadas e Chavarría Gutiérrez) volti che forano lo schermo e che potrebbero anche tacere e parlare solo con le rughe che striano la loro pelle, ed inoltre chiude la pellicola con un’istantanea non priva di lirismo: uno scoglio può arginare il mare.