Perché Tsai
Ming-liang, uno degli sguardi che ha segnato il cinema degli ultimi
vent’anni, ha deciso di avventurarsi in un progetto come quello del
monaco camminatore? Questa domanda il sottoscritto se la poneva già
all’uscita di Walker (2012) circoscrivendola al corto sotto
esame, adesso che dalla suddetta visione di anni ne sono passati ben tre e con loro
altri tasselli di questo strano quadro moviolistico (non visti da me
medesimo), giunti a Xi you (2014) la domanda non solo è
sempre la stessa ma è ancora più urgente: perché?
Parlando di Stray Dogs (2013), ovvero quello che dovrebbe
essere l’ultimo film “canonico” del taiwanese, mi ero
sbilanciato dicendo che oramai Tsai era giunto ad un tale livello
autoriale e autoritario che in sostanza poteva permettersi di fare
ciò che più gli aggradava, anche non-film (che
ovviamente SONO film) come la serie Walker. Molto
interessante, molto chic, ma non davvero esaustivo, cioè:
vogliamo di più, il senso è quello che ci colma e come
condannati bramiamo di trovarlo per liberarci da un manufatto eterno
quale Journey to the West è, lo scoviamo anche senza
troppi arrovellamenti interpretativi, e non è solo uno.
Benissimo. Non troppo: le suggestioni che maggiormente mi convincono
sono due e sintetizzando si tratta di: uno di come il passo
estenuante del monaco strida con il caos iperveloce della città
(‘sta volta è Marsiglia), da qui un’illustrazione del
contrasto fra un certo distacco religioso dalla concretezza
dell’affollata urbanità, due di come l’alter ego
Kang-sheng possa incarnare il cinema decelerato del suo mentore
fautore di esemplari artistici disallineati dall’ordinario
brulichio.
Orbene, le appena
summenzionate vie esegetiche sono le medesime che estrapolai vedendo
Walker, e credo sia inevitabile poiché Xi you
altro non è che una sua prosecuzione dove non muta pressoché
nulla. Probabilmente una volta che il disegno di Tsai sarà
terminato e magari riunito in un fiotto unitario si avvertirà
meno ciò che qui, con una pausa di tre anni tra una
proiezione e l’altra, ho percepito, ovvero un senso di ripetizione,
di quel già veduto impossibilitato a fertilizzare il discorso.
Non bisogna avere timori riverenziali, mente sgombra!, cosa aggiunge
Journey to the West? Domanda retorica, più che altro si
accoda, si adagia, si sovrappone al suo predecessore (e presumo anche
agli altri) svelandosi come una copia degli intenti deducibili dal
primo episodio della serie. Tenuto conto che al di là
dell’idea soggiacente il regista si diverte, e lo spettatore
insieme a lui, in uno studio sulla visualità del corpo nella
scena (perfetto il campo lunghissimo con Lee che prospetticamente
deambula sul viso di Lavant), mi si potrà obiettare che
qualcosa di divergente da Walker c’è e non è
cosa da poco, la presenza di un attore come Denis Lavant a sua volta
feticcio per un altro regista (Carax) potrebbe significare l’incontro
concettuale tra due lontane culture cinematografiche (questione non
nuova visto che Tsai ha più volte teso la mano verso il cinema
francese: Che ora è laggiù? [2001] e Face
[2009]), eppure non ritengo sia abbastanza uno sfiorarsi del genere,
curioso sì, che si instrada nella globalità del
progetto pure. È come se Lavant fosse un accessorio la cui
figura dell’adepto al seguito del monaco non sia capace di
concimare più di tanto la faccenda. Si vedrà con No No Sleep (2015) quello che succederà, plausibilmente
niente di diverso da ciò che sostanzia Journey to the West.
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