martedì 27 dicembre 2016

Journey to the West

Perché Tsai Ming-liang, uno degli sguardi che ha segnato il cinema degli ultimi vent’anni, ha deciso di avventurarsi in un progetto come quello del monaco camminatore? Questa domanda il sottoscritto se la poneva già all’uscita di Walker (2012) circoscrivendola al corto sotto esame, adesso che dalla suddetta visione di anni ne sono passati ben tre e con loro altri tasselli di questo strano quadro moviolistico (non visti da me medesimo), giunti a Xi you (2014) la domanda non solo è sempre la stessa ma è ancora più urgente: perché? Parlando di Stray Dogs (2013), ovvero quello che dovrebbe essere l’ultimo film “canonico” del taiwanese, mi ero sbilanciato dicendo che oramai Tsai era giunto ad un tale livello autoriale e autoritario che in sostanza poteva permettersi di fare ciò che più gli aggradava, anche non-film (che ovviamente SONO film) come la serie Walker. Molto interessante, molto chic, ma non davvero esaustivo, cioè: vogliamo di più, il senso è quello che ci colma e come condannati bramiamo di trovarlo per liberarci da un manufatto eterno quale Journey to the West è, lo scoviamo anche senza troppi arrovellamenti interpretativi, e non è solo uno. Benissimo. Non troppo: le suggestioni che maggiormente mi convincono sono due e sintetizzando si tratta di: uno di come il passo estenuante del monaco strida con il caos iperveloce della città (‘sta volta è Marsiglia), da qui un’illustrazione del contrasto fra un certo distacco religioso dalla concretezza dell’affollata urbanità, due di come l’alter ego Kang-sheng possa incarnare il cinema decelerato del suo mentore fautore di esemplari artistici disallineati dall’ordinario brulichio.

Orbene, le appena summenzionate vie esegetiche sono le medesime che estrapolai vedendo Walker, e credo sia inevitabile poiché Xi you altro non è che una sua prosecuzione dove non muta pressoché nulla. Probabilmente una volta che il disegno di Tsai sarà terminato e magari riunito in un fiotto unitario si avvertirà meno ciò che qui, con una pausa di tre anni tra una proiezione e l’altra, ho percepito, ovvero un senso di ripetizione, di quel già veduto impossibilitato a fertilizzare il discorso. Non bisogna avere timori riverenziali, mente sgombra!, cosa aggiunge Journey to the West? Domanda retorica, più che altro si accoda, si adagia, si sovrappone al suo predecessore (e presumo anche agli altri) svelandosi come una copia degli intenti deducibili dal primo episodio della serie. Tenuto conto che al di là dell’idea soggiacente il regista si diverte, e lo spettatore insieme a lui, in uno studio sulla visualità del corpo nella scena (perfetto il campo lunghissimo con Lee che prospetticamente deambula sul viso di Lavant), mi si potrà obiettare che qualcosa di divergente da Walker c’è e non è cosa da poco, la presenza di un attore come Denis Lavant a sua volta feticcio per un altro regista (Carax) potrebbe significare l’incontro concettuale tra due lontane culture cinematografiche (questione non nuova visto che Tsai ha più volte teso la mano verso il cinema francese: Che ora è laggiù? [2001] e Face [2009]), eppure non ritengo sia abbastanza uno sfiorarsi del genere, curioso sì, che si instrada nella globalità del progetto pure. È come se Lavant fosse un accessorio la cui figura dell’adepto al seguito del monaco non sia capace di concimare più di tanto la faccenda. Si vedrà con No No Sleep (2015) quello che succederà, plausibilmente niente di diverso da ciò che sostanzia Journey to the West.

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